venerdì 6 gennaio 2012

Unicredit si mangia mezzo aumento. Ma alle altre banche potrebbe andare peggio

Circa 3,5 miliardi in fumo in sole due sedute. L’ampia e rassicurante (forse troppo) intervista dell’ad Corrado Ghizzoni al Sole 24 Ore non è servita a molto. Al mercato l’aumento di capitale di Unicredit continua a piacere pochissimo. Dopo il crollo di mercoledì del 14,45% (bruciati quasi 2 miliardi di euro), ieri per la banca di Piazza Cordusio è arrivata un’altra bastonata. Al termine di una giornata fatta più che altro di sospensioni per eccesso di ribasso, il titolo ha chiuso con un calo addirittura del 17,2% (altri 1,5 miliardi persi). Una percentuale che riporta il titolo ai livelli del settembre 1992, a 4,48 euro, e che ha fatto scattare anche l’allarme in Consob, dove stanno verificando se nelle sale operative di Piazza Affari qualcuno si sia fatto beffe della disciplina sulle vendite allo scoperto.

Le analisi e i retroscena sullo scivolone di Unicredit si sprecano. C’è chi sostiene che la decisione di offrire uno sconto sulle azioni del 43% (rispetto a medie europee del 30% e ad una forchetta che si aggirava al massimo al 40%) sia stata dettata dalla disperazione. Dal tentativo di non far scappare le Fondazioni azioniste e di rastrellare mezzi freschi da qualche fondo sovrano arabo o asiatico. Solo così si spiegherebbe la reazione fortemente negativa degli investitori verso un’operazione annunciata da mesi e varata ufficialmente prima di Natale. Ma la realtà è che per trovare i 7,5 miliardi per l’aumento la strada era quasi obbligata, considerando la volatilità del titolo nelle ultime settimane (67%) e l’impatto della somma sulla capitalizzazione della banca (il 60%). Certo, sette mesi fa Intesa ha affrontato il mercato (5 miliardi di aumento) offrendo uno sconto ben più basso del 24,3%. Ma è chiaro che sette mesi, con quello che è successo in Europa da luglio in poi, significano un’era geologica fa. Il quadro, oggi, è profondamente mutato. E la sensazione è che la mossa di Unicredit abbia bruscamente ricordato al mercato che sulla testa delle banche pende una richiesta europea di ricapitalizzazione di 114,7 miliardi (di cui 15,4 per l’Italia) e che l’intero sistema rischia di andare a gambe all’aria.

Non è un caso che ieri insieme ad Unicredit siano andate a picco tutte le principali banche europee ed italiane (Bpm -10,7%, Banco popolare -10,2%, Ubi -8,9%, Mps 8,5%, Intesa -7,3%). Vista in quest’ottica la ricapitalizzazione a forte sconto che partirà lunedì prossimo rappresenta un gioco di anticipo che potrebbe rivelarsi vincente rispetto a chi sta ancora valutando come e quando muoversi. La pensano così molti analisti. E la pensa così anche il Financial Times, che ieri nella sua Lex Column ha detto senza mezzi termini che i dettagli dell’aumento contano poco. Quello che veramente conta è che la banca «avrà i suoi soldi», mentre le altre «potrebbero non essere altrettanto fortunate». La tesi non è affatto peregrina. La stessa decisione dell’Eba (l’autorità bancaria europa) di prevedere l’intervento di seconda istanza degli Stati e del fondo europeo per gli aumenti lascia pensare che da qui alla scadenza di giugno potrebbe non esserci capitale a sufficienza per puntellare tutti gli istituti in difficoltà. In quel caso a farne le spese saranno famiglie e imprese. Perché, malgrado il sostegno pubblico, le banche saranno costrette a ridurre il volume dei prestiti (il cosiddetto deleverage) per rientrare nei parametri di patrimonializzazione imposti da Bruxelles.
Sulla riuscita dell’operazione non dovrebbero esserci troppe sorprese. L’ad Ghizzoni ieri ha assicurato che «una buona parte dell’aumento può considerarsi già prenotato». Alcuni dei soci storici, in effetti, si sono già impegnati a sottoscrivere fino al 24% delle azioni oggetto dell’offerta. Si tratta di capire, a questo punto, quanto la ricapitalizzazione modificherà l’assetto proprietario di Unicredit.  Di sicuro si alleggerirà il peso delle Fondazioni. E anche questo, sostengono alcuni, non è che un altro punto a favore dell’aumento.

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