mercoledì 4 gennaio 2012

Omsa delocalizza per vivere. Di Pietro organizza il boicottaggio

Curioso Paese l’Italia, dove un giorno ci si commuove e ci si indigna per l’imprenditore che preferisce togliersi la vita pur di non licenziare i suoi dipendenti e il giorno dopo, senza alcun problema, ci si scaglia con ferocia contro chi i dipendenti li licenzia e ha ancora il coraggio di uscire di casa. Eppure, non è difficile capire che si tratta della stessa crisi, dello stesso fisco e dello stesso costo del lavoro che stanno strozzando le piccole imprese e azzoppando quelle più grandi. Non è difficile capire che se i conti non tornano o si taglia (per tempo) o si va tutti a gambe all’aria.

Riflessioni totalmente inutili quando di mezzo c’è un grande marchio, come dimostra la massiccia campagna di protesta, cavalcata principalmente dal Popolo Viola e dall’immancabile Antonio Di Pietro, che sta montando sul web (in particolare su Facebook) al ritmo di centinaia di adesioni al minuto contro la Omsa-Golden Lady. Nel tempo necessario a scrivere questo articolo l’esercito di potenziali boicottatori delle famose calze è balzato da meno di 25mila ad oltre 29 mila persone, con poco meno di 300mila utenti invitati ad aderire. La vicenda riguarda le lettere di licenziamento via fax partite prima della fine dell’anno per le 239 lavoratrici dello stabilimento di Faenza che la Golden Lady si appresta a chiudere per trasferire le attività in Serbia. Al di là dell’idea, bizzarra, di aiutare le dipendenti a mantenere il posto colpendo il fatturato del gruppo con il mancato acquisto dei vari prodotti firmati dalla multinazionale italiana (Omsa, Golden Lady, Philippe Matignon, Serenella, SiSi), la cosa incredibile è che il destino dello stabilimento si conosce da circa due anni. Da quando è partita la trattativa coi sindacati per la riconversione dello stabilimento, che ha ottenuto come primo risultato l’estensione della cassa integrazione fino al marzo prossimo. Il cattivo di turno, il patron della Golden Lady Nerino Grassi, non si è svegliato una mattina decidendo di lasciare tutti in mezzo ad una strada. L’operazione rientra in una riorganizzazione del gruppo tessile mantovano (che ha 3.500 dipendenti distribuiti in 11 stabilimenti produttivi in Italia e in Europa e controlla l’americana Kayser Roth Corporation forte di 4 stabilimenti produttivi e 1.500 dipendenti) che ha già portato alla creazione di due fabbriche in Serbia, dove il governo locale per attrarre gli investitori stranieri offre condizioni fiscali estremamente favorevoli, sconti sull’energia e dove il costo del lavoro è un terzo di quello italiano. La stessa cosa hanno già fatto, tra le grandi, la Fiat, la Magneti Marelli, Benetton, Fantoni, Unicredit, Intesa, Generali. E, tra le meno conosciute, la Dytech Dynamic Fluid Technologies di Scarlino (Grosseto), la Proma Magneto, la Sigit e la Htl.

Vogliamo boicottare tutti? Vogliamo considerare tutti i trasferimenti, come ha denunciato Di Pietro, «atti intimidatori»? Oppure è il caso di chiedersi se invece di fare la guerra della calza non sia meglio mobilitarsi per chiedere al governo di sbloccare il mercato del lavoro toccando l’art. 18, di abbassare i costi fiscali per le imprese, di rivedere le politiche energetiche per tagliare il prezzo della bolletta?
Non è un caso, forse, che nessuno voglia acquistare la fabbrica Omsa di Faenza. Detto questo, se Grassi aveva preso degli impegni è giusto che li rispetti e che rispetti il dramma di chi si troverà senza lavoro. Del resto, anche Marchionne aveva annunciato la chiusura di Termini imerese e poi l’accordo, soddisfacente per tutti, si è raggiunto. La patata bollente è anche questa volta nelle mani di Corrado Passera. L’appuntamento è per il 12 gennaio al ministero dello Sviluppo. È lì, con tutta probabilità, e non su Facebook, che si deciderà il destino delle 239 lavoratrici.

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