Miliardi di euro andati in fumo, risparmiatori spennati, contribuenti costretti ad aprire il portafoglio. I crac bancari ci sono stati. E sono costati pure cari. Ma di individuare una responsabilità non se ne parla. Foss’anche quella di aver messo un po’ di polvere sotto il tappeto o nascosto qualche documento agli organismi di vigilanza. Niente. Anche gli ex vertici di Mps Fabrizio Mussari (presidente), Antonio Vigni (dg) e Gianluca Baldassarri (capo della finanza), a quanto pare, non hanno mai sbagliato un colpo.
Questa almeno è l’opinione della terza sezione penale della Corte d’Appello di Firenze, che ieri ha assolto tutti con formula piena perché «il fatto non costituisce reato». Un verdetto a sorpresa che ribalta completamente la sentenza di primo grado del tribunale di Siena, che nell’ottobre del 2014 aveva invece condannato i tre manager a tre anni e sei mesi, con cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, per concorso in ostacolo alla vigilanza.
Il processo è una costola dell’inchiesta condotta dalla procura di Siena sull’acquisizione di Antonveneta, filone poi trasferito a Milano (dove è in corso il dibattimento che vede sempre imputati gli ex vertici), ed è concentrato sulla disastrosa gestione del derivato Alexandria, un prodotto rischioso acquistato da Mps nel 2005 da Dresner Bank per circa 400 milioni.
I problemi arrivano nel 2009, quando la crisi dei mutui subprime provoca il crollo del titolo derivato e una perdita di 220 milioni nel bilancio del Montepaschi. A quel punto il presidente dell’istituto Mussari s’inventa una toppa peggiore del buco: Alexandria viene ceduto alla banca giapponese Nomura con un sovrapprezzo. E a garanzia dell’operazione viene varato un piano di acquisto di Btp trentennali per spalmare nel lungo periodo le perdite legate al derivato. Il risultato sono altri 300 milioni bruciati.
È proprio sui termini dell’accordo con Nomura che si sono concentrate le attenzioni degli investigatori. Il contratto, secondo l’accusa, era contenuto in un «mandate agreement» che i vertici della banca avrebbero tenuto ben nascosto in cassaforte (il documento è venuto alla luce solo nel 2012), occultandolo volutamente alla vigilanza e pregiudicando a Bankitalia, allora guidata dall’attuale presidente della Bce, Mario Draghi, la possibilità di intervenire e prevenire ulteriori danni.
L’ostacolo ai controlli è stato ritenuto penalmente rilevante dal tribunale di Siena e anche dal procuratore generale di Firenze, Vilfredo Marziani, che in appello ha ribadito le richieste fatte a suo tempo dai pm di sette anni di reclusione.
Tutt’altra, però, l’opinione dei giudici, che hanno accolto senza esitazione le tesi della difesa. E cioè che gli ispettori della vigilanza furono tenuti all’oscuro del «mandate agreement» perché, malgrado la cassaforte, era un contratto preparatorio poco importante. Quello che veramente contava era il «deed of amendment», il contratto escutivo, che è invece stato puntualmente messo a disposizione degli sceriffi di Bankitalia. E comunque, come ha sostenuto Franco Coppi, legale di Vigni, tutti sapevano dell’accordo con Nomura: «Era noto a più persone, il suo contenuto ideologico è risaputo, ci sono scambi di e-mail dove viene citato, è accessibile».
Insomma, la banca è fallita, le perdite non sono state contabilizzate, ma nessuno ha nascosto niente a nessuno. Una tesi che potrebbe essere applicata anche agli altri ex vertici di Mps, Fabrizio Viola e Alessandro Profumo. Per entrambi, anch’essi indagati per ostacolo alla vigilanza, la procura di Milano ha infatti chiesto in questi giorni l’archiviazione.
Ad ascoltare la sentenza di ieri c’era solo l’ex capo dell’area finanza dell’istituto senese, Gianluca Baldassarri, che si è limitato a commentare: «Ho fatto otto mesi di carcere». Mussari e Vigni hanno invece appreso dell’assoluzione telefonicamente. «Tutti felici, pur essendo estranei alle accuse», hanno riferito gli avvocati.
© Libero