sabato 3 settembre 2016

Altro che gufi: l'Italia è tornata a crescita zero

Il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ce l’hanno messa tutta ieri a Cernobbio per spiegare che «la lunga marcia» dell’economia proseguirà con un «2016 che chiuderà meglio del 2015» e che la «ripresa è debole, ma c’è». Ma la realtà è che il Pil nel secondo trimestre è rimasto perfettamente immobile, con una crescita pari allo zero per cento rispetto ai primi tre mesi dell’anno (quando era a +0,3%). E che dietro la cifra snocciolata dall’Istat, che ha confermato la stima preliminare dello scorso 12 agosto, ci sono indicatori pessimi per l’economia.

La domanda è rimasta al palo, con una variazione sostanzialmente nulla data da un lieve aumento dello 0,1% dei consumi delle famiglie e da un calo dello 0,3% della spesa della Pa. Mentre gli investimenti fissi lordi hanno registrato una flessione dello 0,3%. Una riduzione determinata da un calo dello 0,8% della spesa per macchinari, attrezzature e altri prodotti compensata da un aumento dell’1,4% della spesa per mezzi di trasporto. Gli investimenti in costruzioni sono invece rimasti invariati. Quanto ai settori sono emersi incrementi congiunturali per l’agricoltura (0,5%) e i servizi (0,2%). Miglioramenti zavorrati, però, da uno scivolone dello 0,6% dell’industria.
Gli uomini di governo intervenuti al Forum Ambrosetti hanno tentato di spostare i riflettori sui dati tendenziali, dove l’Istat ha in effetti ritoccato leggermente al rialzo le previsioni diffuse prima di ferragosto. La crescita rispetto al secondo trimestre del 2015 è passata dal precedente 0,7 allo 0,8%. Un incremento che ha fatto salire anche la stima sul pil acquisito per il 2016 (quello che si avrebbe in caso di ulteriori variazioni congiunturali nulle) dallo 0,6 allo 0,7%.

Si tratta, però, sempre di una distanza considerevole rispetto all’1,2% previsto dal Documento di economia e finanza presentato lo scorso aprile (che già aveva limato la previsione rispetto al precedente 1,6%). In termini assoluti sono circa 6,4 miliardi che mancano all’appello e che peseranno sul tentativo del governo di portare il rapporto deficit/pil ai livelli richiesti dall’Europa. Ieri Padoan si è prudentemente limitato a promettere che l’indebitamento «continuerà a scendere», senza azzardarsi ad anticipare quanto. Tutto, ovviamente, dipenderà da quanta flessibilità Renzi riuscirà ad ottenere a Bruxelles. Ma già senza considerare il buco nel Pil gli spazi di manovra erano strettissimi. Al netto del deficit che verrà chiesto dal governo per i costi del post terremoto, la trattativa si muove sul filo dei decimali (una richiesta di chiudere il 2017 con un deficit/pil al 2,4%, come nel 2016, rispetto all’1,8% precedentemente concordato) ed ogni minima oscillazione potrebbe far saltare il banco. Senza contare che la diminuzione del pil provocherebbe anche grossa difficoltà sul fronte del debito, su cui la Ue non è più disposta a fare sconti dopo i continui rinvii del governo sul percorso di riduzione.

La verità è che il governo si aspettava qualcosa di più. Anche perché negli ultimi giorni il pressing sull’Istat per arrotondare i conti sulla base del buon andamento dei servizi era stato intenso. Lo stesso ministero dell’Economia aveva fatto trapelare un giudizio «incoraggiante» sul dato del comparto (+1% sul primo trimestre), preannunciando un impatto positivo sulla crescita. Il risultato, però, non è stato quello atteso. Rispetto alle stime di metà agosto il pil del secondo trimestre è cresciuto di 213 milioni, ma l’Istat, correttamente, ha ricalcolato anche quello del primo trimestre (+160 milioni), assottigliando, così il margine di aumento. L’operazione non è insomma servita a far scattare il segno più davanti alla crescita congiunturale.
E a chi ieri tra gli ambienti di Palazzo Chigi storceva il naso sulla capacità dell’Istituto di statistica di registrare in maniera ottimale tutte le variazioni, i tecnici dell’Istat hanno risposto che il calcolo del pil è basato su criteri europei uguali per tutti che non mostrano alcuna tendenza strutturale a sottostimare i servizi rispetto all’industria. «Non si rivelano distorsioni sistematiche per un settore piuttosto che un altro», hanno spiegato i ricercatori.

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