venerdì 23 settembre 2016

La Bce ci detta le riforme per fare un favore ai falchi

La versione ufficiale trapelata da Francoforte è quella di una task force incaricata di studiare e monitorare le riforme strutturali realizzate dai Paesi membri dell’Eurozona. Il gruppo di lavoro, assicurano dalla Bce, non ha alcuna volontà prescrittiva né avrà alcuna funzione operativa.
C’è, però, chi è pronto a scommettere che l’iniziativa diventerà una sorta di braccio armato degli eurofalchi rigoristi. Il quotidiano francese La Tribune, ad esempio, non può fare a meno di notare un’inquietante somiglianza con la troika, che ha messo in ginocchio i Paesi più deboli dell’eurozona. Già il termine task force, sottolinea il giornale economico, «ricorda immancabilmente il gruppo di funzionari europei guidati dal tedesco Horst Reichenbach inviati ad Atene nel 2011 per riformare il Paese».

Il rischio, insomma, è che dietro la maschera del tavolo di esperti si nasconda un comitato permanente di pressione verso i governi che non si adeguano ai diktat della Commissione. L’insidia, fa notare La Tribune, è proprio sul concetto di «riforme strutturali». Un tema su cui Mario Draghi (da sempre favorevole ad una maggiore ingerenza di Bruxelles nelle politiche economiche nazionali) è intervenuto più volte e che è stato ripreso anche ieri nel Bollettino mensile della Bce. Si tratta di capire se per riforme si intende l’austerity imposta finore ai Paesi periferici, come intende la Germania, oppure politiche espansive destinate a sostenere la crescita e lo sviluppo, come chiede in questi giorni Matteo Renzi.
L’ambiguità su quale delle due versioni sia prioritaria per rilanciare l’Europa, finora, non è stata sciolta. E la questione non è di lana caprina. Come ha spiegato in un recente studio l’economista bocconiano Tommaso Monacelli, «nell’ambito di una unione monetaria, le famose riforme strutturali, se non accompagnate da simultanee misure di espansione della domanda, possono rivelarsi addirittura dannose».

Il Bollettino diffuso ieri da Francoforte non sembra molto rassicurante. Oltre a sottolineare l’impatto positivo sul mondo del lavoro del jobs act, che «ha contribuito al rinnovato dinamismo dell’occupazione», il documento spiega che i Paesi con alti livelli di indebitamento, cioè quelli come  l’Italia, «dovrebbero compiere ulteriori sforzi di risanamento per imprimere al rapporto debito/Pil una solida dinamica discendente». Un percorso che, con buona pace dei sogni di flessibilità del premier, deve essere fatto «in piena conformità con il Patto di Stabilità».
Mentre altri Paesi con margine di intervento sui conti pubblici, ad esempio la Germania, «dovrebbero ricorrere a questo spazio di manovra per sostenere la domanda attraverso l’espansione degli investimenti pubblici».
Insomma, Roma deve tirare la cinghia, mentre Berlino può spendere. E la Commissione dovrà essere severa. Se non c’è adeguamento al Patto, i documenti di bilancio spediti a Bruxelles andranno rinviati al mittente. Se questo è l’orientamento della task force, per l’Italia sarà un bagno di sangue.

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