martedì 17 maggio 2016

L'ultima mancia: 300 milioni agli statali

Lo stile è quello già sperimentato dopo la bocciatura da parte della Corte costituzionale della mancata perequazione delle pensioni. Spacciare un rimborso parziale per un bonus aggiuntivo gentilmente donato dal governo. Questo è il senso del piano dell’esecutivo per il rinnovo del contratto degli statali illustrato ieri dal Messaggero. Che i soldi non fossero molti si sapeva già dallo scorso autunno, quando la legge di Stabilità, per ottemperare alla sentenza della Consulta del luglio 2015, ha deciso di stanziare solo 300 milioni per finanziare il rinnovo.

Una cifra che oltre all’indignazione ha suscitato anche qualche ironia. Guardando la dinamica degli stipendi medi della Pa, pur con tutte le cautele dovute alla presenza nel listone di categorie molto ben pagate come i magistrati e i diplomatici, lo stipendio medio lordo annuo degli statali è passato dai 34.915 euro del 2011 (anno in cui è partito il blocco) ai 34.348 euro del 2014. Con un taglio netto di circa 600 euro l’anno. Ebbene, a fronte di queste perdite il malloppo offerto dal governo è stato scambiato da molti per un’elemosina. Secondo i calcoli degli esperti spalmare i 300 milioni sui 3,2 milioni di impiegati della Pa avrebbe permesso a ciascun lavoratore di essere destinatario di circa 100 euro. Togliendo 33 euro di contributi e di Irap che grava sull’ente il bottino si assottiglia a 67 euro. Dividendo la somma per le consuete tredici mensilità l’aumento ammonterebbe a ben 5 euro mensili. Ma non è finita. Perché i 5 euro devono ancora passare per il tricarne delle trattenute erariali, che ridimensionerebbero l’importo finale ad un guadagno netto di 3,5/3,7 euro.

Messa così, era impossibile far passare l’operazione come qualcosa di cui il premier Matteo Renzi può vantarsi su Twitter e nei pubblici comizi. Un’esigenza che l’approssimarsi degli appuntamenti elettorali delle comunali e del referendum rende sempre più pressante. In questo senso, ad esempio, vanno lette le sortite degli ultimi giorni sulla sfolgorante ripartenza del piano casa per l’edilizia popolare e il clamoroso raddoppio del bonus bebé (due ipotesi lanciate in rapida sequenza da Repubblica durante il week end).
Ed ecco allora l’idea del titolare della Pa, Marianna Madia. Spalmare la cifra non su tutti i lavoratori che ne avrebbero diritto, ma solo su quelli più bisognosi, almeno in termini di reddito, ovvero sugli stipendi più bassi.

I dettagli, che dovranno essere messi nero su bianco nella direttiva da inviare all’Aran (l’Agenzia per la rappresentazione negoziale della Pa), sono ancora da definire. Due le ipotesi sul piatto. La prima, stabilire già a monte una soglia di reddito al di sotto del quale concedere l’aumento. L’altra, lasciare alla contrattazione sindacale il compito di piazzare l’asticella, tenendo sempre conto che i soldi sono quelli e, dunque, più si alza il livello della «mancia» più si restringe la platea dei beneficiari. Ma il risultato dovrà comunque essere quello di garantire a quei pochi che rientreranno nel sorteggio un aumento dignitoso, se non proprio di 80 euro, di qualcosa di simile.

La prospettiva di un bonus selettivo piace pochissimo ai sindacati. «Il contratto è un diritto per tutti i lavoratori. E il rinnovo deve restituire dignità e riconoscimento professionale e retributivo a tutte le lavoratrici e i lavoratori pubblici. Senza eccezioni», dicono congiuntamente i segretari generali di Fp-Cgil, Cisl-Fp e Uil-Pa, Rossana Dettori, Giovanni Faverin e Nicola Turco. «Siamo i primi a voler sostenere i redditi più bassi anche nel pubblico impiego», spiegano i sindacalisti, «ma questo va fatto attraverso la leva fiscale, abbassando le tasse, aumentando i servizi alla persona, gli aiuti alle famiglie monoreddito. Non riversando misure minime di civiltà sui costi contrattuali».

Altra preoccupazione delle sigle è che tra l’annuncio e i fatti passi troppo tempo. Il governo è infatti ancora alle prese con il passaggio del pubblico impiego da undici a quattro comparti, che dovrà passare anche dal ministero per l’Economia. Contemporaneamente bisognerà ridisegnare la mappa della rappresentanza sindacale, sulla base del nuovo sbarramento al 5%. In questo modo il rinnovo slitterebbe a dopo l’estate, quando però tutti i riflettori saranno puntati sul referendum. Il rischio, a quel punto, è che il governo usi il rinnovo contrattuale come specchietto per le allodole in vista del referendum, spostando ad un periodo successivo la concretizzazione dell’operazione. La conseguenza, per i lavoratori della Pa, sarebbe quello di passare un altro anno senza contratto. In barba alle promesse e alle sentenze.

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