La decisione, considerato il peso del Dragone sull’economia del Vecchio continente e la scarsa audacia degli euroburocrati, non era affatto scontata. Alla fine, però, l’Europarlamento ha trovato il coraggio per dire no alla Cina. Nella risoluzione non legislativa approvata ieri dall’aula a Strasburgo i deputati hanno stabilito che fintché il colosso asiatico non avrà soddisfatto i cinque criteri stabiliti dall’Ue per definire le economie di mercato, le sue esportazioni devono essere trattate con una metodologia «non standard», che serve a determinare se i prezzi sono di mercato o oggetto di sovvenzioni. Attualmente, infatti, «dato l’attuale livello di influenza dello Stato nell’economia cinese, le decisioni delle imprese su prezzi, costi, produzione e fattori di produzione non rispondono a segnali di mercato che rispecchiano l'offerta e la domanda».
La posizione dell’Europarlamento è chiara, ma per ora inutile. La palla passa all’Unione Europa che dovrà trovare il modo di conciliare l’orientamento di Strasburgo, che prevede di fatto un mantenimento degli attuali livelli di dazi, con gli obblighi internazionali previsti all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc o Wto). In particolare il protocollo di adesione della Cina, che dopo 15 anni di valutazioni prevede cambiamenti nel modo in cui la Cina dovrà essere considerata dopo l’11 dicembre 2016. Nella risoluzione adottata con 546 voti favorevoli, 28 voti contrari e 77 astensioni, i deputati invitano la Commissione Europea a presentare una proposta che trovi un equilibrio tra queste esigenze. Esortando Bruxelles a tener conto dei timori espressi dall’industria europea, dai sindacati e da altri soggetti interessati, circa le possibili conseguenze per l’occupazione, l’ambiente e la crescita economica del Vecchio continente.
La sovraccapacità produttiva della Cina e le conseguenti esportazioni a prezzi ridotti stanno già avendo «pesanti conseguenze sociali, economiche e ambientali», specialmente per quanto riguarda il settore siderurgico. I deputati sottolineano nel provvedimento che 56 delle attuali 73 misure comunitarie antidumping in vigore si applicano alle importazioni dalla Cina. Il problema, come anche a Strasburgo sanno bene, è l’importanza del partenariato tra l’Ue e la Cina. Il Dragone è il secondo partner commerciale dell'Ue e, con un interscambio e giornaliero di oltre 1 miliardo di euro, «è stato il principale motore di redditività per una serie di industrie e marchi dell’Ue».
Malgrado questo, l’Europarlamento è contrario «a qualsiasi concessione unilaterale alla Cina dello status di economia di mercato» e chiede che l’interpretazione degli obblighi previsti dal Wto sia fatta in collaborazione con gli altri principali partner commerciali utilizzando i prossimi vertici internazionali, il G7, il G20, nonché il vertice Ue-Cina, per trovare una risposta codivisa.
Lo scenario che si apre ora, però, è tutt’altro che definito. Anche perché finora nessuno è sembrato voler prendere di petto la questione. Gli Stati membri si sono opportunamente defilati, mentre la Commissione europea, pur consapevole dei possibili danni, ha sempre tenuto una posizione ambigua e non ostile al governo di Pechino. La mossa dell’Europarlamento è un forte segnale politico, ma non è vincolante. La partita, insomma, è da giocare. Anche tenendo conto dell’atteggiamento che avranno gli Stati Uniti.
Dall’Italia, comunque, il sostegno a Strasburgo non è mancato. Il neo ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, definisce il voto «importantissimo», aggiungendo che «gli strumenti di difesa commerciali vanno non solo tenuti in piedi, ma rafforzati».
Applausi anche dalle imprese. «Il Parlamento Ue», ha spiegato Lisa Ferrarini, vice presidente Confindustria per l’Europa, «ha deciso di schierarsi dalla parte dei produttori e dei lavoratori europei contro la concorrenza sleale».
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