martedì 5 aprile 2016

Aria di prelievo sulle pensioni. Il magistrato: "Atto dittatoriale"

Ci risiamo. Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, è tornato domenica ad invocare il contributo di solidarietà sulle pensioni. Il governo smentisce. Ma spiega che ci sono verifiche in corso (Enrico Morando) e che il taglio degli assegni oggi in vigore potrebbe essere prolungato  oltre la scadenza di dicembre (Giuliano Poletti). Insomma, le tasche dei pensionati sono di nuovo a rischio. In barba alla legge.

Tra gli esperti di Palazzo Chigi, come dimostra proprio il contributo di solidarietà riproposto da Letta dopo la bocciatura della Corte Costituzionale, si continua a pensare che la Carta fondamentale consenta spazi sufficienti a far passare un provvedimento. In realtà, la natura stessa del trattamento pensionistico non permette alcun tipo di intervento volto a determinare ricalcoli o decurtazioni. Come spiega a Libero il giurista Valentino De Nardo, Presidente di Sezione della Corte di Cassazione, la pensione è un «diritto quesito». Ovvero un «diritto disciplinato da un accordo fra il cittadino e lo Stato, concluso in base alle leggi vigenti al momento della sua conclusione, che non può essere mutato da leggi successive, perché il rapporto di lavoro si è ormai definitivamente esaurito e trasformato nel diritto alla liquidazione della pensione e del Tfr, quali parti della retribuzione, il cui pagamento è stato soltanto differito per fini previdenziali nell’interesse esclusivo dei lavoratori».

Per essere più chiari, l’assegno previdenziale è il frutto di un patto che è «assimilabile ad un contratto privato». E qualsiasi tentativo di modificarlo configurerebbe «di fatto una grave responsabilità per inadempimento ed il delitto di appropriazione indebita delle somme trattenute dal datore di lavoro, in ambito civilistico, ed il delitto di peculato in ambito penalistico». In questo senso, ricorda De Nardo, che ha prodotto uno studio approfondito sulla questione, si sono già espressi in passato non solo la Corte Costituzionale, ma anche la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato. Il magistrato ha analizzato nel dettaglio le due principali ipotesi sul campo. La prima, il contributo di solidarietà, è già stata cassata più volte. Ma nella manovra di varata alla fine del 2013 la sforbiciata è ricomparsa. C’è chi sostiene che le bocciature furono dovute alla destinazione delle risorse all’esterno del perimetro della spesa previdenziale. Motivo per cui il governo questa volta ha girato il ricavato al fondo degli esodati. Ma la Corte, afferma De Nardo, ha spiegato che la pensione «stante la sua natura di retribuzione differita, merita particolare tutela rispetto ad altre categorie di redditi, sicché il contributo di solidarietà, visto come vero e proprio prelievo di natura tributaria, risulta con più evidenza discriminatorio». Dunque la nuova legge, ora vaglio della Consulta, «non potrà che ricevere un’identica dichiarazione di incostituzionalità».

Discorso diverso per l’ipotesi di ricalcolo con il metodo contributivo degli assegni. In questo caso si invoca un principio di solidarietà in base al quale il taglio delle pensioni più alte in virtù del metodo retributivo servirebbe a garantire la stabilità dell’intero sistema previdenziale. Ma questo è in palese contrasto con il diritto. L’unico principio di solidarietà sociale «previsto all’interno del sistema pensionistico è quello determinato dal passaggio dalla capitalizzazione alla ripartizione, per cui i lavoratori attivi sono chiamati a finanziare con la loro contribuzione attuale anche le prestazioni in favore dei soggetti protetti non più attivi». In questo senso va letto il richiamo dell’articolo 2 della Costituzione al generale principio di solidarietà sociale, «che deve riguardare tutta la collettività, in relazione alla capacità contributiva di ciascuno, e non, per quanto riguarda il settore in esame, il taglio delle pensioni più alte rispetto a quelle di minor importo, presenti o future».
Non è tutto. Oltre ad essere un «diritto quesito», spiega De Nardo, la pensione rappresenta anche un «fatto compiuto (facta praeterita) in virtù del quale le nuove norme modificative in senso sfavorevole all'interessato non possono estendere la loro efficacia ai fatti compiuti sotto il vigore della legge precedente, benché dei fatti stessi siano pendenti gli effetti». In caso contrario, è come se mettessimo in discussione i giudicati delle sentenze civili e penali. Se questo accadesse, conclude il magistrato, «si passerebbe dallo Stato di diritto e democratico ad un regime autoritario e dittatoriale».

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