sabato 2 aprile 2016

Jobs Act fasullo, i disoccupati aumentano

La festa è finita. E dalla giostra renziana del jobs act scendono in un colpo solo 97mila lavoratori, orfani dei super incentivi che per tutto il 2015 hanno drogato il mercato e spinto le assunzioni.
A febbraio, esattamente un mese dopo la fine della decontribuzione triennale piena per i nuovi contratti a tempo indeterminato, la disoccupazione è tornata a salire e i posti stabili a scendere. Questo il messaggio recapitato ieri dall’Istat,  dopo oltre un anno di festeggiamenti governativi, di tweet celebrativi e di accuse ai gufi.


Qualcuno, da Palazzo Chigi, ha cercato di schivare il colpo, farfugliando osservazioni sulla volatilità stagionale o sulla tendenza positiva  del medio periodo. Ma i dati snocciolati dall’Istituto nazionale di statistica parlano chiaro. Il tasso di disoccupazione è risalito all’11,7% rispetto all’11,5% di gennaio, quello di occupazione è invece sceso dello 0,2% al 56,4%. Con una crescita percentuale dei disoccupati di circa 7mila unità (+0,3%) e un calo degli occupati di ben 97mila unità (-0,4%).
A fare la differenza, manco a dirlo, sono proprio i contratti a tempo indeterminato, Il calo occupazione, spiega l’Istat è dovuto in misura principale ai dipendenti. Quelli a termine hanno proseguito la discesa iniziata lo scorso agosto, diminuendo di 22mila unità, mentre hanno completamente invertito la rotta per la prima volta quelli permanenti, crollati a picco di 92mila unità rispetto alle buone performance delle precedenti rilevazioni. Il risultato è che i posti fissi hanno bruciato la crescita registrata a gennaio (+0,7%, pari a +98mila) tornando ai livelli del dicembre 2015.

Quanto ai risultati positivi di inizio anno, che secondo il governo erano la prova definitiva del successo del jobs act, è lo stesso Istat ha spiegare che si è trattato di una crescita «presumibilmente associata al meccanismo di incentivi introdotto dalla legge di stabilità 2015». La spiegazione è nel metodo di rilevazione usato dall’Istituto, basato su interviste settimanali che hanno provocato una coda statistica del grande boom di fine dicembre, quando le imprese si sono affrettate a chiudere i contratti prima della fine della decontribuzione.
Uno scenario, del resto, confermato dai dati dell’Inps sulle comunicazione obbligatorie delle imprese diffusi a metà marzo. A gennaio, mese d’esordio della nuova decontrivuzione soft (sgravio passato dal 100 al 40%, limite ridotto a due anni e tetto massimo di esonero da 8.060 a 3.250), l’Osservatorio del precariato ha registrato un saldo finale tra attivazioni e cessazioni di contratti a tempo determinato negativo per 12.378 unità. Mentre i nuovi contratti stabili sono scesi addirittura del 39% rispetto a gennaio 2015 (-70mila).

L’unico lieve miglioramento rilevato dall’Istat riguarda la disoccupazione giovanile scesa di uno 0,1% al 39,1%. Positivo, ovviamente, anche il confronto con  il 2015. Su base annua, infatti, il numero degli occupati è cresciuto dello 0,4% (+96mila), mentre i disoccupati sono diminuiti del 4,4% (-136mila). Dati a cui si è aggrappato il governo per sostenere che la macchina del lavoro viaggia ancora a pieno regime. Secondo il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, «il confronto su base mensile rimane tipicamente fuorviante perchÈ risente di volatilità stagionali che non hanno particolare rilevanza». La vera valutazione sull’andamento dell’occupazione, ha spiegato Taddei, «emerge invece dal confronto su base annua, che resta ampiamente positivo». Simile il ragionamento del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che ammette «le oscillazioni congiunturali legate ad una situazione economica che presenta ancora incertezze». Ma  tali oscillazioni «non modifcano la tendenza positiva dell’occupazione nel medio periodo».

Il problema è che di oscillazioni congiunturali nel 2015 se ne sono viste poche. E se è vero che il confronto annuo continua ad essere soddisfacente, lo scivolone di febbraio getta comunque un’ombra inquietante sull’intera operazione messa in piedi dal governo. Se prosegue così, il mercato del lavoro potrebbe bruciare in pochi mesi il vantaggio guadagnato lo scorso anno, lasciando in eredità solo i costi degli sgravi fiscali per le imprese scaricati sulle spalle dei contribuenti.
Al lordo delle trasformazioni da contratti a tempo determinato secondo l’Inps sono state circa 1,5 milioni le assunzioni che hanno usufruito dell’esonero. Questo fa sì che nel corso del triennio 2015-2018 il giochino costerà 19,5 miliardi a fronte di una copertura prevista di 15 miliardi. Come sarà coperto il buco è un mistero. Ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha ammesso che «la crescita è un po’ meno forte di quanto si poteva immaginare». Mentre sul fronte dei conti pubblici sempre ieri è arrivato il dato sul fabbisogno pubblico, peggiorato di 2,9 miliardi per colpa, sostiene il governo, del mancato incasso del canone Rai.

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