domenica 17 aprile 2016

Intanto l'Eni ha già perso: i giudici chiudono i pozzi

Mentre tutti i riflettori sono puntati sul sul pesante coinvolgimento nell’inchiesta di Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria e presidente di Unioncamere, indagato per associazione a delinquere, i giudici buttano le chiavi degli impianti petroliferi Eni in Val d’Agri, bloccando la produzione e lasciando a casa migliaia di lavoratori. Il centro oli di Viaggiano è fermo dal 31 marzo, quando sono scattati i sequestri della magistratura nell’ambito della maxi inchiesta sul presunto smaltimento illecito di rifiuti in Basilicata.

Ma i lavoratori sono rimasti fino ad ora sul sito per eseguire i lavori necessari a tenere in efficienza gli impianti. Ieri, però, la prospettiva è cambiata. Il Tribunale del riesame, dopo aver analizzato il ricorso presentato dai legali dell’Eni, che chiedevano il dissequestro ha stabilito che i sigilli alle due vasche del Centro oli di Viggiano e il pozzo di reiniezione Costa Molina 2 a Montemurro apposti dai carbinieri del Noe resteranno al loro posto.
A nulla è servita la documentazione prodotta dal Cane a sei zampe. Evidenze scientifiche indipendenti secondo cui il gruppo energetico avrebbe «nelle sue attività, sempre agito nel pieno rispetto della legge, come confermato da tutte le operazioni effettuate in materia di qualità dell’ambiente, dalle corrette procedure di reiniezione e dallo stato di salute dei dipendenti”.
Al di là del merito delle accuse, basate evidentemente sull’ipotesi di una sistematica e quotidiana contraffazione da parte dell’azienda dei dati che certificano il rispetto delle norme ambientali, sul piano formale, come ha spiegato venerdì scorso l’ex ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, «il sequestro dell’impianto è legittimo solo se c’è un rischio ambientale e sanitario accertato».
C’è questo rischio a Potenza? Sono ovviamente convinti di no i legali dell’Eni, che sono già al lavoro per controbattere alle tesi del Tribunale.

Dalla compagnia, dopo aver «preso atto con rammarico della decisione del riesame», hanno fatto sapere che sarà presentato immediatamente il ricorso davanti alla Corte di Cassazione. Contemporaneamente l’azienda ha anche ribadito l’intenzione di «richiedere un incidente probatorio tecnico in contraddittorio con la Procura». L’istanza, che sarà presentata a breve, farà leva proprio sulle «chiare evidenze scientifiche elaborate da un collegio di periti indipendenti che confermano il rispetto da parte dell’impianto delle best practice internazionali per impianti analoghi adottati in tutto il mondo e della normativa italiana».
Ma la solerzia e la determinazione degli avvocati dovranno comunque fare i conti con i tempi della giustizia, che sappiamo non essere fulminei. Prima del verdetto potrebbero dunque passare diverse settimane, se non mesi. Il risultato è chiaro: stop di tutte le attività e chiusura degli impianti. «Nelle more del ricorso», si legge in una nota dell’Eni, «l’impianto olio di Viggiano rimarrà non operativo e sarà avviata la procedura di fermata e la messa in stato di sicurezza del sito».
Oltre al danno economico per l’azienda, che fino al 31 marzo scorso trattava negli impianti 75mila barili di petrolio al giorno, la decisione dei magistrati costituirà una legnata per i 200 dipendenti dell’impianto e le migliaia di lavoratori dell’indotto che resteranno senza impiego.

Intanto, dagli atti dell’inchiesta è emersa ieri l’apertura di un fascicolo a carico di Ivan Lo Bello, finora trascinato nel calderone solo a causa dei suoi rapporti, in ambito confindustriale, con il compagno dell’ex ministro Federica Guidi, Gianluca Gemelli. Secondo i pm, per assicurarsi il controllo di un pontile nel porto di Augusta in Sicilia e di altri progetti nel settore dell’energia e della difesa del territorio, è stata costituita un’associazione per delinquere composta da Gemelli, Nicola Colicchi, Paolo Quinti e lo stesso Lobello. A primi due viene attribuito il ruolo di «promotori, ideatori e organizzatori». A quinto e Lo Bello, invece, quello di «partecipanti». Il vicepresidente di Confindustria, che ha appreso dalle agenzie di stampa dell’indagine, ha comunque ribadito «la sua piena fiducia nella magistratura», chiedendo alla procura di «essere ascoltato quanto prima».

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