mercoledì 25 settembre 2013

La sinistra si lamenta per Telecom, ma la colpa è sua

Altro che capitani coraggiosi. Per la sinistra, oggi, il matrimonio spagnolo tra Telefonica e Telecom non s’ha da fare. Secondo il capogruppo del Pd alla Camera, «le notizie che arrivano sul caso Telecom sono molto preoccupanti perché riguardano asset strategici del nostro Paese». Per questo Roberto Speranza chiede che «il governo venga al più presto a riferire alla Camera». Stessa richiesta arriva anche da Luigi Zanda, capo dei senatori Pd, che però, riferendosi pure ad Alitalia, rincara la dose parlando «di grave declino del sistema industriale italiano» e di «prevalenza degli interessi privati sugli interessi pubblici».

Ma i timori e i dissensi sono diffusi in tutto il partito. Per il vicecapogruppo alla Camera, Andrea Martella, si tratta di «un’operazione densa di incognite». Il senatore Salvatore Tomaselli si preoccupa per i livelli occupazionali, mentre il deputato Umberto Marroni denuncia la «svendita del patrimonio aziendale italiano» e chiede «l’immediato intervento di Letta per scongiurare l’ipotesi di acquisizione».
C’è chi, come l’onorevole Michele Meta, parla di «errore fatale» della politica e chi, come Paolo Gentiloni, definisce l’operazione «l’epilogo di una lunga storia di anomalie e fallimenti del nostro capitalismo industriale».
Peccato che in quella storia di anomalie e fallimenti il partito dell’ex ministro delle Comunicazioni ci sia dentro fino al collo. La storia recente di Telecom, per quanto ieri ben pochi nel Pd abbiano mostrato di ricordare, è ben nota.

Fu un professore di nome Romano Prodi, lo stesso che ha guidato la coalizione di centrosinistra per due volte e che il Pd ha candidato qualche mese alla presidenza della Repubblica, a dare il via alle danze, con la privatizzazione della compagnia. Un’operazione avvenuta nel 1997 per trovare i 26mila miliardi di lire necessari all’ingresso nell’euro. L’ex segretario del Pd, Pierluigi Bersani, allora era ministro dell’Industria.
Qualche anno più tardi, nel 1999, è il turno di Massimo D’Alema, che da presidente del Consiglio applaude all’audacia della nuova razza padana pronta a salire in sella all’ex monopolista dei telefoni. Il finanziere bresciano Chicco Gnutti, l’ex patron di Unipol, Giovanni Consorte, e Roberto Colaninno, insieme a 180 piccoli imprenditori lanciano l’assalto a Telecom tramite una società lussemburghese, la Bell. «Si tratta di un gruppo di imprenditori e di manager ben noti, che forse stanno facendo il passo più lungo della gamba, ma questo sarà oggetto di valutazioni. Allo stato delle cose, consentitemi di apprezzarne il coraggio», dice l’allora premier del Pd all’indomani dell’annuncio della scalata.

A quasi quindici anni di distanza D’Alema difende la sua decisione. «Ancora oggi», dice, «penso che fu una scelta giusta quella di rispettare il mercato e consentire che una grande impresa italiana potesse essere acquistata come avviene normalmente in tutti i Paesi di democrazia liberale». E per argomentare il suo pensiero, dopo aver scaricato un po’ di responsabilità sull’allora ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi («fu deciso concordemente che il governo non dovesse intervenire»), aggiunge: «Non ho venduto nessuna azienda. Telecom era già privatizzata ed è stata acquistata con una Opa sul mercato. Per altro è del tutto ridicolo fare discendere le difficoltà e le decisioni odierne, sulle quali giustamente il Parlamento chiede chiarezza, da una vicenda che risale ormai a quasi 15 anni fa e dopo la quale Telecom ha vissuto complesse e infinite vicissitudini».
L’ex presidente del Pd ha forse dimenticato, anche se è difficile crederlo, che dopo aver acquistato a debito e trasformato il gruppo in un castello di scatole cinesi, con la finanziaria Hopa che controlla Bell e giù a scendere Olivetti, Tecnost e infine Telecom, nel luglio 2001 Colaninno e soci vendono al patron della Pirelli, Marco Tronchetti Provera il 23% della quota detenuta dalla Bell, intascando una plusvalenza di 1,5 miliardi di euro. La somma viene considerata esagerata anche dalla magistratura, che accusa i capitani coraggiosi di aver sottratto al fisco circa 700 milioni di euro. Il contenzioso con l’Agenzia delle entrate si risolve poi con una transazione di 156 milioni di euro. Il danno è minimo.

Non si può dire, purtroppo, la stessa cosa del gruppo Telecom. Il debito della società acquistata da Colaninno si aggirava sugli 8 miliardi di euro, quello della società acquistata due anni dopo da Tronchetti è esploso ad oltre 35 miliardi. Si tratta di una zavorra ancora quasi interamente sulle spalle del gruppo e che ha in gran parte provocato il declino di cui oggi si sta parlando.
Ed è curioso che ad interrogarsi sulla vicenda, come fosse appena sceso dalla luna, ci sia anche Matteo Colaninno, figlio di Roberto ed ora responsabile economico del Pd: «Quando l’Italia resta priva di un pezzo industriale importante, è una perdita. A rischio c’è la garanzia dei dipendenti e del piano industriale. In questi casi bisogna domandarsi se esiste un socio industriale in grado di garantire futuro».

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