mercoledì 6 marzo 2013

Italia a luci spente. In difficoltà due famiglie su tre


Mentre i grillini giocano a fare i parlamentari e Pierluigi Bersani tentenna, le voci di un imminente declassamento dell’Italia si fanno sempre più insistenti. C’è chi assicura che sia solo questione di ore e che ad impugnare la scure sarà ancora una volta Moody’s. La stessa che la scorsa estate ha sforbiciato di ben due gradini il rating italiano portandolo in un colpo solo da A3 a Baa2, il livello più basso fra le tre principali agenzie, a due sole incollature dai cosiddetti junk bond. Del resto, la stessa Moody’s ha detto chiaramente qualche giorno fa che «invece di migliorare la visibilità sulla direzione politica del Paese, le recenti elezioni in Italia hanno aumentato il rischio che la fase di riforme avviate possa sospendersi, se non completamente bloccarsi». Più o meno lo stesso avvertimento è arrivato anche da Fitch, secondo cui, però, l’impatto dell’incertezza politica sul merito creditizio dei titoli di Stato italiani non sarà imminente. In caso contrario, il Paese perderebbe l’unica A ancora rimasta in piedi di tutti e tre i rating (per Fitch siamo ad A-, 4 livelli sopra il junk, per S&P a BBB+, 3 livelli sopra).

Beccarsi un altro downgrade comporterebbe per l’Italia un danno non indifferente. Banche e assicurazioni vedrebbero scendere a cascata il loro rating e dovrebbero pagare più interessi sulle loro obbligazioni. Ma il rischio principale riguarda il debito sovrano. Sul fronte interno non dovrebbero esserci grosse ripercussioni. Lo scorso febbraio Assogestioni ha opportunamente modificato i limiti per i fondi di liquidità, abbassando la soglia del rating minimo dei titoli di Stato in portafoglio all’investment grade (Baa3, BBB-, BBB-). E lo stesso hanno fatto, su suggerimento della Covip, i principali fondi pensione. Ma all’estero non saranno così clementi. E molti investitori istituzionali saranno costretti a disfarsi dei nostri titoli, alimentando così ulteriori tensioni sullo spread e assottigliando ulteriormente (ormai è passata dal 50% al 30%) la quota di debito detenuta fuori dai confini nazionali.

L’Europa, d’altro canto, non starà ad aspettare le acrobazie italiane. Entro il 30 aprile, governo o non governo, dovrà arrivare a Bruxelles sia il nuovo Documento di economia e finanza con la politica economica del Paese per il prossimo triennio sia il Piano nazionale per le riforme. Il primo, tanto per essere chiari, costituisce, come si legge nei documenti ufficiali del Parlamento, «il più importante documento di programmazione della politica economica e di bilancio nazionale, adottato nel quadro del Semestre europeo per il conseguimento degli obiettivi di crescita, sostenibilità e coesione sociale definiti nella Strategia Europa 2020». In altre parole, il leader del Pd, Bersani, ha pochissimo tempo per uscire dalla situazione di stallo. E il governo avrà poi poco più di un mese per elaborare il Def, a meno che non voglia copiare quello presentato lo scorso anno da Monti.

La questione, non peregrina, è stata ieri oggetto di discussione in sede di Eurogruppo. Tanto che il presidente Jeroen Dijsselbloem ha sentito il bisogno di ricordare che «ognuna delle parti interessate nella vicenda politica italiana deve contribuire alla stabilità dell’eurozona e rispettare gli accordi che abbiamo preso per mettere in sicurezza l’euro». Lo stesso Mario Monti, in vista del Consiglio europeo del 14 marzo, ha deciso di invitare a Palazzo Chigi, separatamente, Bersani, Berlusconi e Grillo per uno «scambio di opinioni» per trovare «elementi di consenso, accanto a possibili divergenze, sulle tematiche all’ordine del giorno» del vertice.

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