giovedì 13 dicembre 2012

"Lo spread non è tutto". Parola di economisti

Lo spread è un imbroglio? Le affermazioni di Silvio Berlusconi, ribadite ieri dall’ex premier, hanno scatenato una raffica di polemiche e reazioni indignate. Eppure, il Cavaliere non è davvero il primo né il più autorevole critico dell’indice che misura il differenziale tra i nostri Btp decennali e i Bund decennali tedeschi. Nell’ultimo anno in molti hanno giudicato il valore del tutto inadatto ad indicare lo stato di salute dell’economia. L’ultima in ordine di tempo è stata Lucrezia Reichlin, economista della London Business School ed ed ex direttore generale delle ricerche della banca centrale europea, la quale in un’intervista alla Cnbc ha spiegato che «non bisogna concentrarsi sullo spread e sulla speculazione, verso cui c’è un’eccessiva attenzione», ma sulle «condizioni disastrose in cui si trova la nostra economia».



Ma della bufala dello spread si sono occupati nei mesi scorsi anche autorevoli organismi economici. È dello scorso settembre, ad esempio, un dettagliato studio della Banca d’Italia in cui si sostiene, dati alla mano, che il premio giusto per chi si accolla il rischio di acquistare i nostri titoli di Stato non può andare oltre i 200 punti base. I fondamentali che determinano lo spread (crescita economica, condizioni fiscali e rischi finanziari), si legge nel rapporto, non giustificano i 450 punti che hanno rappresentato la media del differenziale di rendimento durante l’estate tra i decennali dei due paesi dell’eurozona. Sul differenziale eccedente, che gli economisti non definiscono «imbroglio» ma la sostanza cambia poco, incidono altri fattori. A cominciare dalla «impressionante» riduzione dei rendimenti tedeschi favorita dal forte flusso di acquisti verso i Bund, percepiti in questa fase di crisi e incertezza come bene rifugio.

Solo qualche mese prima un’analisi più o meno simile era arrivata anche dal Fondo monetario internazionale. Nell’aggiornamento del Fiscal Monitor della scorsa primavera gli economisti dell’Fmi sostenevano che dei 485 punti base di rendimento dei titoli di Stato a dieci anni che l’Italia pagava allora in più rispetto alla Germania, almeno 200 non erano «giustificati dagli elementi di lungo termine del bilancio e dell’economia del paese». Ovvero, sono determinati da variabili indipendenti dalle condizioni strutturali dell’economia italiana. Di fatto, ha ribadito il capo economista del Fondo, Olivier Blanchard, lo scorso ottobre, «Italia e Spagna stanno pagando interessi più alti rispetto a quanto sarebbe atteso rispetto ai fondamentali». Imbroglio, speculazione? La sostanza, ancora una volta cambia poco: Bankitalia e Fmi concordano nel definire lo spread un indice bugiardo.
Del resto, fino a due anni fa, nessuno si era mai preoccupato troppo dello spread. Neanche quando negli anni tra il 1992 e il 1996 viaggiava tranquillamente sopra i 600 punti base. Certo, c’era la lira e non l’euro e attraverso le cosiddette svalutazioni competitive si potevano eliminare in parte gli effetti collaterali dell’alto differenziale. Nessuno, in ogni caso, si sarebbe mai sognato di considerare lo spread, come si fa spesso oggi, il termometro del buon governo o, addirittura, del gradimento della comunità internazionale nei confronti di chi guida il Paese.

Che i mercati, in buona misura, se ne infischino delle dinamiche interne dei Paesi non a rischio di default come il nostro, mentre sono pronti a scattare sull’attenti al minimo movimento del sopracciglio del presidente della Bce, Mario Draghi, è dimostrato anche dall’andamento dei rendimenti di ieri, con lo spread che ha chiuso la seduta in calo a 330 punti, ampiamente sotto i livelli di guardia e 30 punti sotto la quota che aveva fatto gridare all’apocalisse un paio di giorni fa.
Ma il dato più clamoroso è quello che arriva dall’asta dei Bot, dove gli investitori, per nulla spaventati dal combinato disposto Berlusconi-Monti, hanno comprato a piene mani debito italiano. Oggi ci sarà un altro esame, più delicato, con 3,5 miliardi di Btp triennali sul piatto, ma ieri sono stati piazzati con successo tutti i 6,5 Bot a 12 mesi, con un tasso passato dall’1,762% di novembre all’1,456%, una soglia che non si vedeva dallo scorso marzo. La domanda è stata quasi doppia, raggiungendo addirittura i 12,6 miliardi di euro, con un rapporto di copertura salito a 1,94 da 1,76 del mese scorso. Stesso discorso per Piazza Affari, anche ieri maglia rosa del Vecchio Continente, con un rialzo dell’1,15%, seguita da Madrid (+0,83%), Londra (+0,35%) e Francoforte (+0,33%).

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