domenica 9 dicembre 2012

Così la riforma Fornero ha licenziato i lavoratori

L'obiettivo, messo nero su bianco nel testo della legge 92, era quello di «di contribuire alla creazione di occupazione, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione». Ad oltre cinque mesi dall'entrata in vigore, però, l'unico risultato visibile della riforma firmata da Elsa Fornero è l'affossamento del lavoro flessibile. Non compensato, come qualcuno ci aveva garantito, da forme contrattuali più stabili.

Diverse associazioni imprenditoriali, in particolare del Nord, avevano già lanciato l'allarme alcune settimane fa, basandosi su segnalazioni provenienti dal territorio. Segnalazioni che iniziano, purtroppo, ad essere confermate dai dati ufficiali. Tra le vittime principali della stretta voluta dalla Fornero sulle forme contrattuali più flessibili c'è sicuramente il lavoro a chiamata (altrimenti detto lavoro intermittente o job on call). Si tratta di una delle modalità di impiego introdotte dalla legge Biagi a cui, soprattutto nelle Regioni a vocazione turistica, negli ultimi anni è stata legata la sopravvivenza della piccola e media impresa in settori come la ristorazione, l'alberghiero, i servizi alla persona e l'autotrasporto.

Il contratto di lavoro intermittente, spiega l'economista della Voce.Info, Bruno Anastasia, «a partire dal 2008 ha conosciuto uno straordinario successo e una progressiva, continua rapida diffusione». Nel terzo trimestre del 2012, però, «in coincidenza non casuale con l'entrata in vigore, il 18 luglio, della legge 92, il trend di crescita si è vistosamente inceppato». I numeri parlano chiaro: in tutte le regioni monitorate (Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto, Emilia Romagna, Marche, Umbria, Campania, Sardegna) tra giugno e settembre si registra un crollo verticale delle assunzioni a chiamata rispetto al trimestre precedente, con percentuali che non scendono mai sotto il 40%. Il bilancio complessivo è catastrofico. Nel trimestre i nuovi contratti a chiamata sono scesi a quota 71mila, con un calo del 57% sui tre mesi precedenti e del 27% sullo stesso periodo del 2011. Parallelamente le cessazioni sono balzate a 156mila unità, con un incremento del 36% sia sul trimestre sia sull'anno precedente.

Anastasia parla di «un forte ridimensionamento dello stock di rapporti intermittenti», che può essere quantificato, per l'insieme delle aree considerate e con riferimento ai rapporti aperti a partire dal 2008, in una «contrazione dei rapporti in essere attorno al 20%, al netto dei fattori stagionali, rispetto al livello pre-riforma».
L'idea dell'economista è che il contratto a chiamata, con le nuove regole imposte dalla Fornero, sia diventato di gran lunga meno appetibile. La conferma arriva dall'Osservatorio&Ricerca di Veneto Lavoro, che nello stesso periodo nella Regione ha rilevato «una inedita contrazione dei rapporti di lavoro intermittente di oltre il 20%, da oltre 80mila contratti aperti fino al terzo trimestre 2011 a poco più degli attuali 60mila». Tra i motivi del tracollo, spiegano gli esperti di Veneto Lavoro, c'è sicuramente il clima di incertezza e la crisi economica. Ma nel complesso, si legge nello studio, «data la loro entità nonché gli esiti osservati, la contrazione nel ricorso al lavoro intermittente è in misura importante riconducibile all'impatto delle nuove normative».

Il problema è che, in barba agli obiettivi della riforma, lo spostamento verso forme di lavoro stabili non è stato così clamoroso. Così come non è stato rilevante quello verso altre tipologie contrattuali flessibili. In altre parole, molti lavoratori (al di sotto dei 24 anni e al di sopra dei 55, come prevede la nuova normativa) sono rimasti semplicemente a casa. I dati del Veneto sono emblematici. Rispetto alle 12.433 cessazioni avvenute a settembre (erano 10mila nel settembre 2011) solo 3mila sono stati riassunti. Quasi tutti dalla stessa azienda. Di questi, spiega Anastasia, il 48% ha ottenuto un contratto a tempo indeterminato, nella maggior parte dei casi part time. La nuova regolamentazione, conclude l'economista, «risulta dunque aver determinato non solo un ridimensionamento del ricorso al contratto di lavoro a chiamata, ma anche uno spostamento rilevante verso i rapporti part-time sia a tempo indeterminato che determinato, mentre non risultano significativi gli spostamenti verso l'apprendistato e verso il contratto a progetto».

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