Mentre in Italia continuiamo a credere alle favole pseudoscientifiche dei terremoti provocati dalle trivelle o a preoccuparci per le possibili, ma tutte da dimostrare, conseguenze sull’effetto serra, gli Stati Uniti (e presto anche la Gran Bretagna) continuano ad estrarre tonnellate di gas a basso costo, condannandoci alla schiavitù energetica.
A lanciare l’allarme è uno come Paolo Scaroni, che di combustibili e di scenari internazionali un po’ se ne intende. Con gli Usa sempre più competitivi grazie alla rivoluzione dello shale gas, ha spiegato ieri l’ad dell’Eni nel suo intervento alla Johns Hopkins University, «per l’Europa è vera emergenza». Già penalizzata da una bassa domanda e da un mercato del lavoro rigido, il Vecchio continente deve fronteggiare prezzi del gas tre volte più alti rispetto agli Usa e un costo dell’elettricità doppio. La somma di questi fattori, ha avvertito Scaroni da Washington, «è devastante e ogni business dell’energia che può ricollocarsi negli Usa dall’Europa lo sta facendo». Secondo il manager, le risorse praticamente illimitate di gas a basso prezzo dischiuse dal non convenzionale, renderanno gli Usa «più riservati» rispetto a quello che succede dall’altra parte del mondo e spingeranno il loro tasso di sviluppo. «Oggi le società americane comprano il gas ai prezzi più bassi del mondo sviluppato e questo è un incredibile vantaggio competitivo», ha insistito Scaroni, «cui si aggiunge una forza lavoro a buon mercato, qualificata e flessibile e un regime fiscale favorevole». Se non ci saranno cambi di marcia, il destino dell’Europa è quello della sudditanza energetica ed economica. Oggi già importiamo 300 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno e nel 2020 la quota salirà a 380 con il calo della produzione domestica. «Importare più gas naturale non aiuterebbe», ha spiegato il manager, «perché da quando viene liquefatto a quando arriva e viene rigassificato il costo raddoppia».
La soluzione più ovvia sarebbe quella di sviluppare lo shale gas in Europa, ma per il momento «la strada appare in salita». Probabilmente «ne abbiamo molto di shale gas, ma c’è anche un’incredibile opposizione». A partire da quella presente in Italia, dove sul gas che potrebbe essere estratto attraverso la fratturazione delle argille circolano quantitivi industriali di pregiudizi e disinformazione. Basti pensare alla polemica di Beppe Grillo sulle origini del terremoto in Emilia Romagna. Ieri era sembrato muoversi qualcosa, con il ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato che da Bruxelles era sembrato disponibile a «permettere le estrazioni in alcune aree perché si tratta di aumentare l’autonomia nazionale». Passati pochi minuti, però, è subito arrivato il dietrofront. I cronisti si sono sbagliati: «Lo sfruttamento dello shale gas non è mai stato preso in considerazione».
A questo punto, ha spiegato Scaroni, l’unica alternativa sarebbe la Russia. «È già un nostro importante fornitore, ma la rivoluzione dello shale gas potrebbe unirci ancora di piu trasformando l’intesa da commerciale a strategica».
Nell’attesa, l’Eni si muove da sola. Ieri il gruppo del Cane a sei zampe ha firmato un accordo con Quicksilver Resources per esplorare e sviluppare giacimenti di olio non convenzionale (shale oil) nell’onshore degli Usa. Con un investimento di 52 milioni di dollari Eni parteciperà con la quota del 50% in un’area di 21.246 ettari nella Leon Valley (Texas).
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