Ad alzare il livello della tensione ci ha pensato ai primi di luglio il presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, che ha confermato le indiscrezioni sulla necessità di alzare l’asticella dell’assegno di vecchiaia. Sulla base dello scenario demografico, ha spiegato Alleva nel corso di un’audizione in Parlamento, ci sarebbe un primo scatto dei requisiti nel 2019 da 66 anni e 7 mesi a 67 anni. Poi, nel 2021, si passerebbe a 67 anni e 3 mesi e nel 2031 a 68 anni e 1 mese. Una prospettiva che ha gettato nel panico i lavoratori in procinto di andare in quiescenza e ha fatto scattare l’immediata protesta dei sindacati. Protesta che qualche giorno fa ha trovato sponda anche in parlamento, con la proposta avanzata dagli ex ministri Cesare Damiano (Pd) e Maurizio Sacconi (Epi) di rimodulare gli scatti automatici. I due, presidenti rispettivamente delle commissioni Lavoro di Camera e Senato, ieri hanno subito replicato a Boeri, definendo «totalmente inutile l’intervista» poichè «è mossa da un presupposto inesistente». Nessuna cancellazione del legame tra pensione e aspettativa di vita, hanno sottolineato Damiano e Sacconi, «ma solo la sua rimodulazione temporale per alleggerire l’allungamento dell’età lavorativa di circa sei anni sulla generazione già adulta all’atto dell’approvazione della riforma Fornero e per aprire, nel frattempo, una più generale riflessione su un sistema previdenziale disegnato nel presupposto del vecchio mercato del lavoro che garantiva stabilità e continuità nei percorsi occupazionali».
Il governo, per ora, ha tentato di gettare acqua sul fuoco, rinviando la questione a dopo l’estate. Le decisioni, ha detto il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, si prenderanno solo in autunno quando arriveranno i dati ufficiali dell’Istat. Ma il Pd sembra intenzionato a rafforzare l’asse con i sindacati in vista delle elezioni. Oggi si terrà al Nazareno un incontro tra i vertici del partito e i segretari di Cgil, Cisl e Uil, nel quale, come spiegato dal ministro dell’Agricoltura e vicesegretario del Pd, Maurizio Martina, in un’intervista alla Stampa, ci sarà «un confronto» proprio sul «sistema pensionistico». E non si tratta di un vertice di routine. Ma di «una tappa importante del lavoro che porterà alla conferenza programmatica del Pd in autunno» per delineare «un impegno per i prossimi 5 anni». In altre parole oggi, insieme ai sindacati, il partito di Matteo Renzi potrebbe decidere alcuni tasselli del programma elettorale. E sul tavolo le sigle metteranno anche il blocco dei requisiti previdenziali.
Se, però, fino a qualche giorno fa l’operazione blocco, sicuramente molto popolare, sembrava fattibile, considerato che circolavano stime di costo nell’ordine degli 1,2 miliardi di euro, ora la situazione si è maledettamente complicata. Boeri, per giunta, fa partire i suoi calcoli dal 2021, dando già per acqusito il primo scatto a 67 anni. Se da quel momento, è il suo ragionamento, congeliamo gli adeguamenti, ci sarebbero «141 miliardi di spesa in più da qui al 2035, quasi interamente detinati a tradursi in aumento del debito pensionistico implicito, dato che l’uscita prima del previsto non verrebbe compensata, se non in minima parte, da riduzioni dell’importo delle pensioni». Tra l’altro, ha aggiunto il presidente dell’Inps, «si bloccherebbe non solo il requisito di vecchiaia ma anche quello che fa salire gli anni contributivi per l’anticipo. Se accadesse si potrebbero avere circa 200mila pensioni in più all’anno».
Boeri non è nuovo ai grandi allarmi dal forte sapore mediatico. Questa volta, però, a dargli manforte c’è anche un esperto come Giuliano Cazzola. Il presidente dell’Inps, dice, «strappa la maschera alla grande menzogna sull’età pensionabile ritenuta, da noi, la più alta d'Europa. Se si guarda all’età effettiva di pensionamento si scopre che in Italia è più bassa (62 anni) che in Germania (64 anni) e della media europea: ciò per la netta prevalenza del numero dei trattamenti anticipati».
La questione, insomma, è più spinosa del previsto. E se il governo spera di cavarsela rimandando tutto all’autunno, forse non ha fatto i conti con l’appuntamento del 24 ottobre, quando la Corte Costituzionale dovrà giudicare la legittimità del cosiddetto bonus Poletti, con cui il governo, nel 2015, ha deciso di restituire ai pensionati solo parte (2,8 miliardi su circa 24) del blocco della perequazione del 2012 e 2013 giudicato incostituzionale. Un verdetto negativo potrebbe creare una voragine nei conti pubblici e incendiare di nuovo la questione previdenziale.