Le critiche degli euroburocrati erano previste e, probabilmente, anche auspicate, considerato il significato politico-elettorale della sfida. Ma la freddezza con cui Bruxelles ha liquidato l’attacco frontale al fiscal compact, rimbalzato in questi giorni dalle pagine del suo ultimo libro «Avanti» ai titoli di quotidiani e tg, forse Matteo Renzi non l’aveva messa in conto.
«Il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker», ha risposto secco il portavoce Margaritis Schinas, «ha un rapporto molto buono» con il premier, Paolo Gentiloni, e «il nostro commissario ha un rapporto altrettanto buono» con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Motivo per cui, «non commentiamo dichiarazioni di persone al di fuori di questa cerchia» di governo. Non si spinge fino al «Renzi chi?», ma è più o meno dello stesso tenore la replica del commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, il quale, conversando con i giornalisti all’Eurogruppo, dopo aver spiegato che è da un anno che non ha modo di «scambiare opinioni con l’amico Matteo», ha ribadito che Bruxelles svolge il suo lavoro «con gli interlocutori legittimi che sono Gentiloni e Padoan, con il quale c’è una relazione estremamente costruttiva».
Tirato due volte in ballo, il titolare di Via XX Settembre, anche lui all’Eurogruppo, ha cercato di togliersi dall’imbarazzo dicendo che «sono temi per la prossima legislatura». Ma la manovra diversiva di Padoan la dice lunga sul clima di ostilità che si respira a Bruxelles nei confronti della proposta di Renzi di ritornare per 5 anni ai parametri di Maastricht con un deficit al 2,9% (non rispettando il limite dello 0,5% di deficit strutturale previsto dal fiscal compact) per mettere a disposizione «una cifra di almeno 30 miliardi» per la crescita e per la riduzione delle tasse. La contropartita offerta dal segretario del Pd è di ridurre «il rapporto debito/Pil tramite una crescita più forte» e «un’operazione sul patrimonio». Lo slogan è semplice: «Rottamare il fiscal compact e l’austerity per la riduzione fiscale».
Una sintesi che non convince per nulla l’Europa. Lo stesso Moscovici, tornando sull’argomento, ha sottolineato che «l’interesse dell’Italia è di continuare a ridurre i suoi deficit per ridurre il livello del debito» e che l’Europa si aspetta «un’Italia credibile, che abbia a cuore e rispetti le regole, nel suo caso applicate anche in modo flessibile». Tagliente, come al solito, il commento del presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, secondo cui «non si tratta di una decisione che una nazione può prendere da sola». Sulle regole, ha aggiunto, «possiamo avere un dibattito aperto, ma non possiamo unilateralmente dire per me non valgono quest’anno o per i prossimi cinque anni».
Una bocciatura netta, che ha offerto a Renzi l’occasione per alzare il livello della polemica. «Ha un pregiudizio e la proposta non l’ha letta», ha replicato a stretto giro l’ex premier, «questa è una battaglia aperta che abbiamo col presidente dell’Eurogruppo, l’olandese che disse che gli italiani spendono i soldi della flessibilità in donne e alcool. Gli spiegai che noi le donne non le paghiamo, ma lui secondo me non ha neanche capito la differenza tra le due cose...».
Ma la proposta fa discutere anche in Italia. Se i leghisti, da sempre in guerra con Bruxelles, si sono limitati a rivendicare di essere stati gli unici a non votare, nel 2013, con il governo Monti, il via libera al fiscal compact e Forza Italia, con Renato Brunetta, ha spiegato che si tratta solo di «proposte scopiazzate», le prese di distanze più nette sono quelle arrivate da sinistra e dalla maggioranza. Il ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, che ieri ha escluso una sua discesa in politica, nel pomeriggio ha corretto un po’ il tiro, spiegando che le proposte sono convincenti solo se «rientrano in un piano industriale molto concreto che punti sui pochi fattori di crescita del Paese». Ma in un’intervista apparsa ieri sul Corriere aveva spiegato che se i soldi servono «per tagli fiscali a pioggia o mance elettorali, meglio tenersi al sicuro nei parametri di Maastricht». Irritatissimo Pierluigi Bersani: «Che abbia fatto votare io il fiscal compact è una fesseria. E comunque non fu un errore, eravamo a due centimetri dalla Grecia». Quanto alla proposta, «diminuire le tasse per far ripartire la crescita è un’idea balzana, di destra, servono piuttosto investimenti».
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