venerdì 7 luglio 2017

Marchionne, il moderato che odia lobby e sindacati

Le capacità imprenditoriali sono fuori discussione. Quando Sergio Marchionne è approdato al Lingotto come amministratore delegato, nel giugno del 2004, la Fiat orfana di Umberto Agnelli e assai scricchiolante aveva chiuso il precedente esercizio con un rosso di 2 miliardi, una perdita operativa di 500 milioni e un fatturato di 49 miliardi. Nel 2016 i ricavi della nuova Fca si sono attestati a 111 miliardi e l’utile netto a 1,8 miliardi. Negli stessi anni i veicoli venduti nel mondo dal gruppo automobilistico sono passati da 1,8 a 4,7 milioni mentre le azioni in Borsa sono cresciute quasi del 500%.

Eclettico, imprevedibile, brillante. L’unico punto fermo del manager italo-canadese è il suo immancabile pullover blu, indossato negli incontri informali come nelle serate di gala, al posto dello smoking. Per non rischiare mai di trovarsi sfornito, in ogni casa negli Stati Uniti, a Torino e in Svizzera ci sono sempre 30 maglioni e 30 paia di pantaloni uguali, che Marchionne dice di comprare on line a botte di 10. Per il resto, inquadrare l’uomo è quasi impossibile. Nel 2009 flirta con Barack Obama per ottenere il via libera all’acquisizione della Chrysler, adesso va a braccetto con Donald Trump, sedotto dal progetto di una fusione con GM che darebbe vita ad un grande colosso americano in grado di competere con i campioni dell’auto nipponici.

Nel 2010, quando ingaggia il lungo duello con la Fiom per il contratto aziendale di Pomigliano, poi esteso agli altri stabilimenti, tutti pensano che in Viale dell’Astronomia se la stiano ridendo di gusto. Qualche tempo dopo, però, facendo ancora una volta da apripista, Marchionne fa le valigie e porta la Fiat fuori da Confindustria e dalle sue lobby.
E’ in quello stesso periodo che il manager invoca nuovi incentivi pubblici per l’auto. «Se non verranno rinnovati», dice rivolto al governo guidato da Silvio Berlusconi, «sarà un disastro. E’ per il bene del Paese». Dopo qualche anno, con una quota importante delle vendite spostata in Nord America e la concorrenza sempre più agguerrita delle case straniere sul territorio italiano, la versione cambia. «Preferisco non avere incentivi», dice nel marzo 2013, «Ho sempre detto che drogare il mercato non è una buona cosa».

Ondivago, contraddittorio? La realtà è che Marchionne sceglie di volta in volta la sua strada, senza starci troppo a pensare. Prima della laurea in legge e dei vari master in business administration, il giovane abruzzese emigrato in Canada completa gli studi in filosofia all’università di Toronto. A chi gli chiede il motivo di quella scelta bizzarra, il manager risponde: «L’ho fatto semplicemente perché sentivo che, in quel momento, era una cosa importante per me». Niente di più, niente di meno.
Un modo di fare che sovente spiazza i suoi interlocutori. Nel 2010, da sindaco di Firenze, Matteo Renzi pensa di tirarlo per la giacchetta: «Io sto dalla parte di Marchionne, dalla parte di chi sta investendo sul futuro delle aziende». Ma il manager sposta parte delle attività negli States, continua a litigare con i sindacati, chiude Termini Imerese. E Renzi, nel 2012, con il popolo della sinistra in subbuglio, è costretto a fare retromarcia: «Non ho cambiato idea, è lui che ha preso in giro lavoratori e politici, non ho mai immaginato Marchionne come modello di sviluppo per l’economia». Al vetriolo la replica del manager: «È la brutta copia di Obama, ma pensa di essere Obama. È il sindaco di una piccola, povera città».

Salito a Palazzo Chigi Renzi cambia di nuovo idea. Sorrisi, battute e abbracci accompagnano la presentazione della nuova Jeep Renegade a Palazzo Chigi, nel luglio del 2014. Mentre nel 2015, visitando lo stabilimento di Mirafiori, l’allora premier si dice «gasatissimo dei progetti di Marchionne». Un amore ricambiato dal manager con frequenti apprezzamenti («ha fatto in 11 mesi quanto non fatto da anni», «se fossi in Italia voterei Renzi») e, soprattutto, con il plateale endorsement per il referendum costituzionale. «E’ il momento di sostenere il nostro primo ministro», ha detto il 24 novembre scorso, dando anche a molti la sensazione di una possibile svolta per il suo futuro. Nel gennaio dello scorso anno Marchionne ha detto, senza mezzi termini, «mai in politica, piuttosto preferirei fare il giornalista». Ma allo stesso tempo ha annunciato il suo addio ad Fca per la fine del 2018. Un leggero anticipo della scadenza potrebbe aprire scenari inesplorati. Anche perché tra chi da sempre ha parole di apprezzamento nei suoi confronti c’è pure Berlusconi. «Ho grande stima di Marchionne, penso sia una persona seria«, ha detto l’ex premier nel gennaio del 2013. Concetto ribadito nel 2015, quando alcune indiscrezioni hanno attribuito al Cavaliere l’idea di portarlo direttamente in campo, in alternativa a Mario Draghi: «Se io non fossi candidabile, proporremo la leadership a Marchionne, che sa parlare ai moderati, ai nostri elettori». Un’idea che gli sta di nuovo ronzando per la testa.

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