Il risultato è che i risparmiatori si sono ritrovati con della carta straccia in mano: le azioni della Popolare di Vicenza sono passate da 62,5 euro a 10 centesimi, quelle di Veneto Banca da 40 euro a 10 centesimi. E le imprese sono restate a bocca asciutta. Ad eccezione del Molise (che con i suoi 310mila abitanti e 31 imprese è statisticamente poco significativa), la regione italiana più colpita dalla riduzione del credito è stata proprio il Veneto. Il dissesto della Popolare di Vicenza, di Veneto Banca, del Monte dei Paschi (presente sul territorio con la ex rete di Antonveneta) e di alcune banche di Credito Cooperativo locali ha innescato un’erosione senza precedenti: -10,7% contro una media nazionale del -6,8 per cento.
In termini assoluti, secondo quanto calcolato dalla Cgia di Mestre, alle aziende venete sono stati tagliati 10,8 miliardi di prestiti (pari al 17,3% del dato nazionale). Solo la Lombardia ha registrato una diminuzione in valore assoluto superiore, con un calo di 15,9 miliardi di euro. Ma si tratta di una realtà territoriale dove è presente un numero di imprese attive doppio rispetto a quella veneta.
La domanda che a questo punto sorge spontanea è: se i i risparmiatori hanno investito e le imprese hanno sofferta la mancanza di liquidità, dove sono finiti quei denari versati alle banche? Il loro status attuale è ben conosciuto: si tratta della montagna di sofferenze che sta soffocando gli istituti italiani e che ha messo in ginocchio le banche salvate dallo Stato negli ultimi anni.
Ma chi ha creato quei crediti deteriorati? Con quale criterio sono stati assegnati i prestiti? Dalle inchieste della magistratura e dalle azioni di responsabilità avviate da alcuni istituti contro gli ex amministratori è già emerso con chiarezza che il circuito del denaro riguardava spesso gli amici degli amici più che l’economia reale. Ma sui nomi dei «bidonisti» finora, al di là di quelli scovati dai giornalisti spulciando i bilanci delle banche, ancora staziona una coltre di nebbia. A nulla sono serviti gli appelli dei consumatori e dei risparmiatori traditi, le campagne di Libero, gli interventi di numerosi esponenti politici. Eppure, come spiega il presidente della Cgia, Renato Mason, è evidente che «la fiducia nei confronti delle banche salvate con il contributo dei soldi pubblici si riconquista anche attraverso la pubblicazione dei nomi, degli importi non ancora restituiti e della quantità di aiuti che questi istituti si sono fatti carico sino ad ora per la ristrutturazione delle aziende insolventi. È importante che chi ha contribuito a dissestare i bilanci di molti istituti bancari sia messo nelle condizioni di non partecipare più alla vita civile di questo Paese».
Tutt’altra la direzione in cui si è mosso il governo, che invece di schierarsi con i risparmiatori e chiedere la lista dei «bidonisti» ha confezionato un decreto per le venete che sembra fatto apposta per tutelare gli ex amministratori. Oltre a bloccare tutte le cause civili degli ex soci e ad impedire ai magistrati di procedere contro gli ex vertici per bancarotta fraudolenta, il provvedimento salva banche del governo metterà pure i bastoni tra le ruote alle azioni di responsabilità avviate nei mesi scorsi dai cda degli istituti nei confronti degli ex manager. La somma in ballo è imponente. Complessivamente si tratta di 4,2 miliardi: 2 quelli richiesti da Pop Vicenza lo scorso dicembre, 2,3 quelli da Veneto Banca a giugno, solo pochi giorni prima che il decreto del governo venisse varato. Ma la palla ora è in mano ai commissari liquidatori, che dovranno decidere se e come proseguire le azioni. Di sicuro si allungheranno i tempi. Le vecchie banche, infatti, non esistono più. E la riassunzione delle cause comporterà anche la riapertura dei termini per la difesa che farà probabilmente slittare le udienze previste per ottobre e novembre a date da destinarsi.