L’Europa a più velocità non solo «è necessaria», ma «c’è già». Bisogna solo trovare la «formula» più adatta. Paolo Gentiloni ha deciso di utilizzare il vertice del 25 marzo nella capitale per provare a liberarsi dei panni del premier di transizione. Di qui l’idea di appiattirsi sul nuovo mantra di Angela Merkel, «uniti nella diversità», per tentare di uscire dalla celebrazione dei 60 anni del trattato di Roma con una dichiarazione congiunta di peso da potersi appuntare sul petto. Un esito su cui il presidente del Consiglio si è detto «ottimista», ma che deve fare i conti con le perplessità crescenti sul piano tedesco.
Cosa concretamente significhi l’Europa a più velocità, al di là degli slogan e delle frasi fatte che vengono elargite a piene mani, è ancora da vedere. La proposta di reagire alle spinte centrifughe rafforzate dalla Brexit con una sorta di rimodulazione delle regole su base territoriale sta creando malumori in molti Paesi periferici, soprattutto dell’Est, che temono la nascita di una sorta di direttorio che invece di sanare, accrescerà le fratture già esistenti, creando una Ue di serie B. Scenario che per l’Italia, sempre sotto osservazione su conti pubblici e riforme, non è detto sia la soluzione migliore. Ma la Merkel ha bisogno di alleati. E Gentiloni, per ora invitato al tavolo dei grandi insieme a Francia e Spagna, sembra intenzionato a cogliere l’opportunità. Il progetto, ha detto il premier, è quello di una «Unione indivisa ed indivisibile, che agisce insieme ogni volta che è possibile e che agisce a differenti ritmi e intensità ogni volta che è necessario». Si tratta di una direzione di marcia obbligata, ha proseguito, «perché consente, laddove ci sia un’intesa tra singoli Paesi, di fare dei passi avanti». Ma la logica, ha tenuto a precisare, non è quella «dell’esclusione, a tutti sarà consentito aderire». E non sarà una rivoluzione, poiché «siamo già strapieni di questioni rilevanti, dall’euro a Schengen, che hanno livelli di cooperazione diversi».
Tesi che convincono pochissimo il cosiddetto gruppo di Visegrad: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. «Non saremo mai d’accordo», ha detto apertamente la premier polacca Beata Szydlo, che ha tentato pure, senza successo, di opporsi alla rielezione di Donald Tusk alla presidenza del Consiglio europeo. Al netto degli auspici di Gentiloni, la strada per l’intesa è tutta in salita. Qualcuno ipotizza addirittura che la multi velocità, alla fine, non troverà spazio nel documento conclusivo.
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