Prestazioni assistenziali a tutti gli immigrati che si trovino legittimamente sul suolo italiano. L’assedio all’Inps per ottenere l’accesso generalizzato ai benefici economici previsti solo per chi risiede stabilmente nel nostro Paese è ormai totale. Ad associazioni, sindacati e cittadini extracomunitari, nei giorni scorsi si è aggiunta pure la Commissione europea, che ha invitato l’Italia a rispettare le direttive comunitarie e ad aprire i cordoni della borsa. Dall’istituto di previdenza continuano a ripetere che in assenza di modifiche normative non è possibileagire diversamente. Ma quando lo scontro si sposta nei tribunali, è spesso lo Stato ad avere la peggio, con significative ripercussioni sulla platea dei beneficiari e sugli stanziamenti pubblici posti a copertura delle erogazioni.
Lo scorso anno una raffica di sentenze di primo grado ha imposto all’Inps di riconoscere le somme previste dal bonus bebé (assegno fino a1.920 euro per ogni figlio nato dal 2015 al 2017 da famiglie con Isee sotto i 25mila euro annui) anche ad immigrati senza carta di soggiorno, come prevede la legge, ma in possesso di permesso unico di lavoro da uno o due anni di di durata. La scorsa settimana il problema si è riproposto con il «bonus mamme domani», un’agevolazione introdotta dall’ex premier Matteo Renzi nella legge di stabilita che concede alle mamme 800 euro a figlio, senza limiti di reddito. La circolare attuativa dell’Inps, che ribadiva il perimetro imposto dalla norma, ovvero i cittadini italiani ed europei e gli extracomunitari con permessi di soggiorno di lunga durata, è stata presa d’assalto dalla Cgil e dal Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), che hanno intimato all’istituto di allargare subito la platea dei beneficiari, così come si sta orientando la giurisprudenza italiani.
Ma sul campo c’è anche un altro bonus. Il più vecchio, in vigore dal 1999 e già preso di mira da molti tribunali del Paese. Si tratta dell’assegno alle famiglie numerose dei comuni, una somma mensile di 141 euro erogata alle famiglie con almeno tre figli minori e un livello Isee al di sotto di 8.555 euro. Anche in questo caso, per scelte politiche ed evidenti ragioni di sostenibilità finanziaria, essendo l’Italia un Paese di frontiera, la platea è circoscritta a tutti i soggiornanti di lungo periodo. La limitazione sembra, però, in contrasto con i principi stabiliti dalla direttiva Ue 2011/98, che sancisce la parità di trattamento sulle prestazioni sociali per tutti i cittadini dei Paesi terzi titolari di un permesso che consenta di lavorare. Un’obiezione su cui la Corte d’Appello di Genova lo scorso agosto ha sentito il bisogno di interpellare la Corte di giustizia europea. Nell’ambito del procedimento, il 2 marzo si è espressa la Commissione Ue. E la posizione è così netta che, secondo l’Asgi, potrebbe addirittura preludere ad una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia. Bruxelles ha infatti precisato che i margini di discrezionalità degli Stati membri non possono andare oltre le norme del diritto dell’Unione e che tale diritto «osta ad una legislazione nazionale che esclude i cittadini di Paesi terzi titolari di permesso soggiorno di lavoro di durata superiore a sei mesi, dal beneficio di una prestazione familiare».
Il governo deciderà se prenderne atto. Nel frattempo, però, ci troviamo, da una parte, con l’evidente rischio che i cittadini comunitari, in caso di mancato rifinanziamento dei fondi, si vedano prosciugare la dote complessiva da quelli extracomunitari, enormemente più prolifici. E, dall’altra, con una palese discriminazione degli stessi cittadini extracomunitari, che vedranno accedere al beneficio solo chi si munirà di carta bollata.
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