Al ministero della Salute e all’Agenzia nazionale del farmaco le bocche, per ora, sono accuratamente cucite. Almeno fino a martedì prossimo, quando l’Aifa illustrerà gli unidici nuovi criteri di trattamento per la terapia. Le grandi linee del piano per contrastare l’epatite C sono state già anticipate sia dal ministro Beatrice Lorenzin sia dal dg dell’Aifa Mario Melazzini. Sul piatto ci sarebbero 500 milioni di euro per 3 anni. Una somma che consentirebbe, secondo Lorenzin e Melazzini, di trattare 80mila pazienti l’anno. L’obiettivo dichiarato è quello di eradicare l’infezione dal Paese, allargando la fornitura gratuita dei farmaci a tutti i pazienti che ne abbiano l’indicazione clinica e non solo ai casi più gravi, come accade ora.
Che il progetto vada a buon fine, purtroppo, è tutto da vedere. Sul piano tecnico, ad esempio, l’Associazione EpaC Onlus, ha spiegato che con i nuovi criteri «sicuramente si prevede un allargamento sostanziale della platea dei pazienti che possono essere messi in lista d’attesa per ottenere le nuove terapie», ma non «l’accesso per tutti i pazienti e la caduta di tutte le restrizioni». Un punto su cui, per ora, bisogna accontentarsi delle rassicurazioni dell’Aifa, che avrebbe promesso cure «senza limitazioni». Un’altra questione è il numero potenziale dei pazienti. Le statistiche della nostra sanità parlano di 200-300 mila casi di Epatite C diagnosticata, di cui 70mila, secondo i dati dell’Aifa, già in cura. Ma solo qualche mese fa la stima effettuata dall’Organizzazione mondiale della sanità individuava i casi di contagio nel nostro Paese tra l’1,25 e l’1,75% della popolazione, ovvero tra 750mila e più di un milione di persone. Se il piano prevede il trattamento per 240mila pazienti in tre anni, resteranno senza cure, nel migliore dei casi, e contando le 70mila già in terapia, almeno 450mila persone.
Ma il nodo centrale riguarda il farmaco. Il colosso statunitense Gilead, che produce la super cura a base di Sofosbuvir (commercializzata con il nome di Sovaldi), ha fatto recentemente sapere che è impegnata a collaborare con l’Aifa e il ministero della Salute per raggiungere una soluzione positiva. Ad oggi, però, la soluzione non c’è. Il Solvaldi, le cui modalità di commercializzazione sono finite pure nel mirino del Senato degli Stati Uniti, viene distribuito ai vari angoli del pianeta con prezzi che oscillano dai 60mila dollari degli Usa ai 900 dell’Egitto. Quasi te lo tirano dietro in India, dove Gilead ha rilasciato la licenza a sette aziende per la produzione di sofosbuvir generico. E in Italia? Da noi, come abbiamo già scritto ieri, un accordo siglato dall’ex dg dell’Aifa, Luca Pani prevedeva la cura per 50mila pazienti per un costo complessivo di 750 milioni. Il contratto, tutt’ora segreto e su cui sta anche indagando la procura di Pavia, prevedeva scaglioni di pazienti con costi a scendere. Per cui si è passati dai circa 45mila euro iniziali a cura fino a poco meno di 4mila euro per i pazienti dell’ultimo scaglione. Quest’ultimo, secondo Melazzini, sarebbe il prezzo giusto. Ma l’azienda non sembra disposta a scendere fino a tale punto. Anche perché, malgrado l’accordo sia scaduto la scorsa estate, il servizio sanitario ha continuato fino a pochi giorni fa a rimborsare i farmaci della Gilead. E il prezzo non era quello dell’ultimo scaglione, ma quello medio di 13-14mila euro. Un costo che dimezzerebbe la platea del nuovo piano. Ora, sembra che Melazzini abbia attivato le pratiche per mettere il Sovaldi in fascia C (non rimborsabile) in modo da chiudere Gilead all’angolo. Ma non è detto che l’azienda ceda. E nel frattempo i malati (tranne i paperoni che possono pagarsi il farmaco) restano senza cura. La soluzione, ventilata dalla stessa Aifa, ci sarebbe: dichiarare l’ emergenza nazionale, bypassare la copertura dei brevetti e produrre il generico. Ma al ministero, per adesso, nessuno sembra intenzionato a forzare la mano.
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