Da Montezemolo a Renzi, passando per Monti e Bersani. Da quando, a soli 10 anni, il nonno Luigi Comencini lo chiamò per interpretare lo scolaro Enrico Bottini nello sceneggiato televisivo Cuore, Carlo Calenda non si è mai tirato indietro. Sale sul carro con la rapidità di un furetto e poi vi rimane abbarbicato con la tenacia di un mitile. Dopo il liceo classico al Mamiani di Roma, la laurea in giurisprudenza e alcuni incarichi nel mondo della finanza, l’attuale ministro dello Sviluppo, 44 anni ad aprile, figlio dell’economista Fabio Calenda e della regista Cristina Comencini, nel 1998 approda alla Ferrari, dove inizia un sodalizio con Luca Cordero di Montezemolo che gli permette di riempire tutte le pagine del curriculum fino al 2013, quando arriva la svolta politica.
Dopo l’incarico come responsabile delle relazioni con i clienti e le istituzioni finanziarie del Cavallino Rampante e una parentesi nel marketing di Sky, Montezemolo lo porta in Confindustria. Sotto la sua presidenza, dal 2004 al 2008, Calenda è prima assistente personale e poi direttore dell’area strategica e affari internazionali. Finita la stagione di Viale dell’Astronomia, il futuro ministro torna nell’impresa. Sempre al seguito di Montezemolo, che lo vuole nel cda di Ntv. La conoscenza con il socio Gianni Punzo lo aiuta poi a conquistare la direzione generale dell’Interporto Campano e la presidenza di Interoporto Servizi Cargo. Incarichi che manterrà fino al 2011.
È in quegli anni che prende forma Italia Futura, think tank con ambizioni politiche fondato da Montezemolo. Calenda è a disposizione, come sempre. E ne assume il coordinamento. Da lì il percorso dell’ex attore inizia ad intrecciarsi con quello di Mario Monti.
L’intesa è forte, ma dura poco. Lo spazio di una tornata elettorale, nel 2013, che Scelta Civica perde con disonore trascinandosi dietro pure Calenda, che si candida alla Camera nel collegio Lazio 1. L’ex braccio destro di Montezemolo è terzo in lista. A Montecitorio finiscono solo i primi due.
Calenda resta a bocca asciutta, ma non si scoraggia. È uomo di relazioni importanti. Frequenta i salotti della Roma bene, tra Parioli e Prati. Ha rapporti con Lapo Elkann e Francesco Getano Caltagirone. Vanta quarti di nobiltà nel sangue, grazie alla nonna principessa Giulia Grifeo di Partanna, e parenti illustri, come il nonno regista e l’altro nonno ambasciatore in India e in Libia nonché consigliere diplomatico di Pertini.
Forte del suo passato, e del suo presente, Calenda inizia a tesssere la sua tela. E nel maggio 2013, fallito l’appuntamento con gli elettori, approda comunque a Palazzo Chigi, con il premier Enrico Letta che gli affida l’incarico di viceministro dell’Economia. Messo piede nel governo, Calenda non solo sopravvive a due cambi della guardia, ma riesce pure a scalare posizioni, arrivando alla poltrona più alta del dicastero.
Qualcuno sostiene che il suo segreto sia la precisione maniacale. Qualità che, però, evita accuratamente di applicare alle posizioni politiche. «Nessun salto in vista», aveva detto poco prima di abbandonare il partito di Monti. La versione immediatamente successiva, nel febbraio 2015, è che «il Pd renziano ha assorbito il centro della società prima ancora che quello politico. Ha assorbito la base sociale ed elettorale di Scelta civica».
Con il passaggio nel Pd parte il corteggiamento a Matteo Renzi, il quale, con una mossa a sorpresa, nel gennaio del 2016 gli offre la carica di rappresentante dell’Italia a Bruxelles al posto dell’ambasciatore Stefano Sannino. Calenda non è un grande esperto di relazioni internazionali. Ma, come sempre, non si tira indietro. Malgrado, a stretto giro, 230 diplomatici prendano carta e penna per chiedere al premier cosa ci faccia l’ex manager di Montezemolo con la feluca in testa.
Passano pochi mesi e per Calenda si presenta un’altra opportunità. La sua ex collega confindustriale Federica Guidi viene travolta dall’inchiesta Tempa Rossa e lui, ancora una volta, è pronto. Renzi non ha dubbi: è l’uomo giusto per guidare lo Sviluppo economico.
Appena salito sulla tolda di comando, però, Calenda si riposiziona. Torna a strizzare l’occhio ai suoi amici imprenditori, spiattellando un piano di investimenti da 13 miliardi (industria 4.0), e inizia a flirtare con l’opposizione interna del Pd, portandosi al ministero un piccolo drappello di bersaniani. Un avvicinamento, questo, che ha fatto addirittura circolare il suo nome prima come antagonista di Renzi per la guida del partito e poi come possibile premier.
A Palazzo Chigi alla fine è andato Paolo Gentiloni, ma Calenda è rimasto saldamente in sella. Talmente saldo da sentirsi autorizzato ad alzare la voce. Prima con il suo amico Montezemolo, accusato di chiedere esuberi in Alitalia senza un vero piano industriale. Poi con Berlino, replicando agli attacchi all’Italia sul dieselgate di Fca.
Ma l’uscita più clamorosa è sicuramente quella su Mps. Premurandosi di non essere completamente in contrasto con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che nei giorni scorsi aveva difeso gli imprenditori «sfortunati» che non restituiscono i soldi alla banca, Calenda si è gettato in una battaglia di retroguardia in difesa dell’opacità e dell’omertà. Niente black list degli insolventi, ha spiegato, perché «è la banca che deve valutare il business plan e deve dire sì o no al prestito» e «non si deve spostare l’onere sul debitore» a meno che «non ci siano state connivenze». Ragionamento che potrebbe stare in piedi se gli insolventi fossero piccoli artigiani o commercianti. Ma di fronte a dati che parlano del 70% dei 47 miliardi di sofferenze in capo ai grandi gruppi, come le Coop o l’impero De Benedetti, la tesi dell’insabbiamento sembra una scelta dettata più dalle vecchie logiche confindustriali che dalle riflessioni di un ministro. Se è questa l’industria 4.0, la somiglianza con quella di prima è impressionante.
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