Prestiti facili non solo per favorire amici e sodali, ma anche per aumentare l’appeal del gruppo dopo il salasso di Antonveneta. È in questo modo che negli anni immediatamente successivi alla costosissima acquisizione (9 miliardi più 7,9 di debito aggiuntivo) Mps ha iniziato ad accumulare quella montagna di sofferenze lievitata fino ai 24 miliardi oggi (al netto di coperture, rettifiche ed accantonamenti).
Di questi crediti, ha spiegato nel corso dell’ultima assemblea della banca Maria Alberta Cambi, presidente dell’Associazione Buongoverno Mps, che rappresenta i piccoli azionisti, «non hanno usufruito certo le famiglie e le piccole e medie imprese». Circa il 70% delle sofferenze, ha proseguito, «si riferiscono proprio a grandi prenditori, per elargizioni per lo più concesse nel 2008 forse a chi non avrebbe potuto restituire tali somme e per finalità che niente avevano a che vedere con la possibilità di produrre reddito».
Le erogazioni, secondo la Cambi, hanno consentito «di gonfiare alcune voci del bilancio col tentativo di far credere al mercato che le potenzialità degli impieghi della banca fossero tali da produrre utili consistenti rispetto al periodo antecedente l’acquisto di Banca Antonveneta».
Illazioni? Spetterà alla magistratura e, forse, alla commissione d’inchiesta che il Parlamento si appresta a varare fare completa luce sulle vicende che hanno portato al collasso l’istituto senese. La ricostruzione della rappresentante dei piccoli azionisti, però, trova un riscontro puntuale nei bilanci della banca.
Nel 2008, 2009 e 2010, si legge nei documenti ufficiali, gli impieghi di Mps sono cresciuti rispettivamente del 7 (a quota 145 miliardi) , del 4,9 (152 miliardi) e del 4,1% (156 miliardi), malgrado l’esplosione della crisi dei mutui subprime e il conseguente terremoto che stava scuotendo tutto il mondo della finanza.
Negli stessi anni i crediti deteriorati non solo non aumentano, ma diminuiscono addirittura. Nel 2008 i prestiti incagliati ammontano a 7,3 miliardi, con un’incidenza sugli impieghi del 5%. L’anno successivo l’asticella si alza, con una quota di incagli e sofferenze di 10 miliardi e un rapporto rispetto al totale dei prestiti del 6,7%. Nel 2010, invece, l’esposizione scende a 6,7 miliardi, con una incidenza del 5,1%.
La pioggia di finanziamenti facili, però, con il passare degli anni inizia a produrre i suoi effetti. I soldi non rientrano e le sofferenze aumentano. Nel 2011 il gruppo registra 13,4 miliardi di crediti deteriorati, esattamente il doppio dell’anno precedente, con un’incidenza sugli impieghi del 9,1%. A fine 2012 la spazzatura sale ancora. Le sofferenze toccano quota 17 miliardi, con una crescita del 30% rispetto al 2011.
La banca comincia a scivolare verso il baratro e tenta di frenare la discesa chiudendo i rubinetti del credito. I prestiti nel 2012 ammontano a 142 miliardi, in calo dell’1,6%. La stretta prosegue nel 2013, con impieghi a quota 131 miliardi (-7,6%). Ma è chiaramente troppo tardi. Le sofferenze continuano a lievitare fino a 21 miliardi. E crescono a 23,1 (+10,2%) nel 2014. La corsa verso il precipizio è ormai inarrestabile. I prestiti scendono, gli incagli aumentano, la banca entra in stallo. E si arriva così ai 24 miliardi certificati al 31 dicembre 2015 di cui negli scorsi mesi si è occupata la Bce. E di cui nei prossimi mesi dovrà occuparsi il governo. Con i soldi dei contribuenti.
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