Si tratta di un flusso in uscita che non ha mai smesso di crescere. Come dimostra la lievitazione dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (che ovviamente tiene conto anche dei nuovi nati) passata dai circa 3 milioni di iscritti nel 2006 agli oltre 4,8 milioni dell’inizio del 2016. Nel solo 2015 le nuove iscrizioni sono state 174mila, in rialzo del 3,7% rispetto all’anno precedente. Mentre nel decennio la progressione è stata del 54,9%.
Chi va e chi viene. I Radicali sostengono che il lavoro degli immigrati in Italia vale circa 100 miliardi, 8 punti di pil. E che la diminuzione delle nascite tra gli italiani impone un aumento dei flussi in entrata: «Servono canali d’ingresso legali non solo per chi cerca protezione, ma anche per chi cerca un’occupazione nel nostro Paese. E poi è necessario regolarizzare coloro che non hanno ottenuto l’asilo, ma che già lavorano e per quanti possono dimostrare di essere radicati nella società».
Per avere un’idea di ciò di cui si parla, vale la pena ricordare che in Italia vivono già circa 5 milioni di stranieri (rispetto ai 2 milioni e mezzo del 2006), con flussi di arrivo (per lavoro o per ricongiungimento con i parenti) che si aggirano oggi sui 250mila l’anno (erano 500mila nel 2007). Senza contare clandestini e profughi. Su questo fronte la progressione degli ingressi negli ultimi anni è stata esponenziale. Dai 22mila migranti sbarcati nel 2006 si è passati nel 2014 a 170mila. Mentre nel 2015 i barconi hanno traghettato sulle coste italiane circa 153mila stranieri. E altrettanti ne arriveranno anche quest’anno.
Servono davvero altri 157mila immigrati? Forse. Ma non dovremmo preoccuparci anche dei 107mila emigrati? Secondo il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, i numeri degli sbarchi e della fuga messi a confronto dimostrano che «c’è una pulizia etnica in corso» e «l’invasione va fermata ad ogni costo». Per il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, invece, «il fenomeno dell’immigrazione straniera e quello dell’emigrazione di italiani all’estero non sono legati da alcun rapporto di causa ed effetto».
La questione, però, resta. La Fondazione Migrantes spiega che «la mobilità è una risorsa, ma diventa dannosa se è a senso unico, quando cioè c’è una emorragia di talento da un unico posto e non è corrisposta da una forza di attrazione che spinge al rientro». Ed è proprio questo, purtroppo, il caso dell’Italia. Dove al posto della brain circulation c’è il brain exchange, «cioè la non capacità non solo e non tanto di trattenere ma di attrarre talenti».
Un problema «grave», sottolinea l’associazione della Conferenza episcopale italiana, confermato dal fatto che i giovani rappresentano la componente più robusta degli italiani con la valigia. Più di uno su tre dei 107mila che hanno trasferito la propria residenza all’estero, il 36,7% ha infatti tra i 18 e i 34 anni. Si tratta dei cosiddetti millenials, su cui ogni Paese che vuole avere un futuro dovrebbe investire. E non può non far riflettere, anche se il fenomeno riguarda tutto il Paese, che la prima regione in valore assoluto per partenze sia la Lombardia, con oltre 20mila emigrati, seguita dal Veneto con circa 10mila uscite. «Si tratta di flussi», ha ammesso anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che «talvolta rappresentano un segno di impoverimento piuttosto che una libera scelta ispirata alla circolazione dei saperi e delle esperienze».
I nostri giovani, ha proseguito il Capo dello Stato, «devono poter andare liberamente all’estero, così come devono poter tornare a lavorare in Italia, se lo desiderano, e riportare nella nostra società le conoscenze e le professionalità maturate. Dobbiamo fare in modo che ci sia equilibrio e circolarità».
Concetto ribadito dal premier Matteo Renzi: «La notizia mi ha fatto male ed è per questo che dobbiamo rendere il Paese più semplice. Dobbiamo creare un clima che permetta ai giovani di tornare. Lo scambio europeo è fisologico, ma siamo ancora poco attrattivi. Bisogna creare occasioni d’innovazione, ricchezza».