martedì 1 marzo 2016

Il trucco delle tasse per tagliarci le pensioni

Tagliare il costo del lavoro con i soldi dei lavoratori. Sarebbe questa l’ultima trovata del governo per far quadrare i conti e sostenere le assunzioni a tempo indeterminato quando saranno finiti i soldi per la decontribuzione totale triennale varata lo scorso anno e quella parziale inserita nell’ultima legge di Stabilità.

La notizia circola da alcuni giorni. E il piano ruoterebbe intorno ad alcune proposte già avanzate nei mesi scorsi da Tommaso Nannicini, professore bocconiano da poco promosso da consigliere economico del premier a sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Lo studioso, tanto per avere un quadro più preciso, è quello che negli anni scorsi ha elaborato insieme al suo collega Tito Boeri, ora a capo dell’Inps, le analisi comparse di frequente sul sito Lavoce.info sulla necessità di mettere le mani nelle tasche dei pensionati attraverso varie ipotesi di contributi di solidarietà. “Il gettito che possiamo attenderci da interventi di questo tipo è limitato. Ma si tratterebbe comunque», hanno scritto i due economisti nel settembre del 2013, «di un flusso annuo destinato ad accompagnarci per svariati decenni (finché lo stock delle pensioni in essere non verrà interamente erogato con il sistema contributivo). E, soprattutto, persistono le ragioni di equità (attuariale e tra generazioni) a favore di un contributo selettivo, visto che il flusso annuo di risorse potrebbe essere destinato subito alla tutela di generazioni che sono state penalizzate dal nostro sistema di welfare».

Abbandonata l’ipotesi del prelievo sugli assegni, considerata da Matteo Renzi troppo impopolare, ora Nannicini sta studiando un altro tipo di sforbiciata, destinata al taglio del cuneo fiscale. Questa l’idea di fondo delineata la scorsa settimana in un’intervista al Corriere: quando la decontribuzione sarà esaurita bisogna ripensare in modo più strutturale al taglio degli oneri contributivi che gravano sul costo del lavoro. Il tutto dovrebbe avvenire senza riduzione delle prestazioni sociali o dei diritti pensionistici. Come fare? Non è chiarissimo. Sul tavolo c’è il piano di tagliare di ben sei punti, per sempre, il cuneo contributivo dei neoassunti a tempo indeterminato. Tre a carico del datore di lavoro e tre del lavoratore. La proposta lanciata la scorsa estate dall’economista, come ricorda La Repubblica di ieri, non prevedeva alcuna compensazione da parte dell’Inps o delle casse dello Stato. Il che significa che il taglio dei contributi previdenziali operati dall’impresa (dal 23 al 20% dello stipendio) è secco. E andrà ad impattare negativamente sull’assegno futuro. Diverso, invece, il caso del lavoratore, che potrà avare una doppia opzione. O lasciare i tre punti di contribuzione (che scenderebbe quindi dal 9,19 al 6,19%) in busta paga o piazzarli in un fondo integrativo. Nella prima ipotesi, un po’ come avviene che la possibilità prevista per il Tfr, l’importo sarebbe colpito da tassazione e il guadagno sarebbe minimo. Su un reddito lordo di 25mila euro il bonus si ridurrebbe a 43 euro mensili, al netto delle tasse. Con 35mila euro la somma salirebbe a 51 euro.

Diverso il caso della previdenza complementare. Dove la perdita di risorse in termini pensionistici potrebbe essere compensata dai maggiori rendimenti del fondo integrativo, addirittura al punto di permettere un recupero parziale anche del taglio operato dal datore di lavoro. Messa così la proposta ricorda da vicino quella avanzata nel lontano 1998 dal professor Alberto Brambilla, docente alla Cattolica di Milano e coordinatore di Intinerari previdenziali, insieme all’economista Franco Modigliani. Se l’ipotesi generale, spiega Brambilla, premettendo di non conoscere i dettagli del progetto, «è quella di un mini opting out dalla previdenza pubblica a quella privata, come avevamo immaginato noi, la proposta mi trova favorevole». Resta da capire quali potrebbero essere i rischi per il lavoratore. «Il 33% di contribuzione», prosegue, porta in media ad un tasso di sostituzione del 74%. Un punto in meno di contribuzione dà circa due punti in meno di prestazione, quindi con il 32% si potrebbe scendere al 72%». A fare la differenza dovrebbe essere il passo più veloce del fondo integrativo. Che potrebbe addirittura permettere, secondo il professore, un recupero parziale delle somme non erogate dall’impresa: «Noi prevedevamo un taglio complessivo, tra lavoratore e datore, del 7,7%, considerando il 3,85% investito in fondi pensione con un rendimento di circa il 2,5% annuo si arrivava ad un guadagno finale sulla prestazione di circa il 10%, che compensava il taglio sulla previdenza pubblica». Per ottenere questo, precisa però Brambilla, «bisognerebbe ritornare ad una tassazione dei fondi almeno al 6,25% anziche all’attuale 20%». Ipotesi poco verosimile, aggiungiamo noi, considerato che solo due anni fa il prelievo sui rendimenti della previdenza integrativa è praticamente raddoppiato dal precedente 11,5%.

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