Mentre 10 milioni di lavoratori italiani intascheranno il bonus di Matteo Renzi, ce ne sono altri 6, i titolari di pensioni integrative, che rischiano l’ennesima stangata a sorpresa. L’ipotesi, non troppo peregrina, sta prendendo corpo nelle ultime ore per tentare di mettere una pezza alla bomba lanciata sul settore previdenziale con l’aumento della tassazione sulle rendite al 26%.
L’incremento deciso dal governo per coprire il taglio dell’Irap alle imprese, infatti, si abbatterà in maniera indiscriminata su quasi tutte le forme di capital gain: dagli interessi sui risparmi dei conti correnti fino ai guadagni legati alla compravendita dei titoli di Borsa. Le uniche eccezioni riguardano gli investimenti in titoli di Stato e i rendimenti della previdenza integrativa, che continueranno ad essere tassati con imposta sostitutiva dell’11%.
Quest’ultima esenzione risponde ad una logica ben precisa, volta ad incoraggiare l’irrobustimento del secondo pilastro pensionistico nella consapevolezza che il primo, quello obbligatorio, presto non sarà più in grado di garantire prestazioni adeguate.
Le preoccupazioni sulla sostenibilità del sistema previdenziale non hanno però impedito che le casse private dei professionisti venissero tranquillamente lasciate fuori dalla rete di protezione fiscale. Anche per loro, infatti, è arrivato l’aumento del prelievo al 26% sui rendimenti delle masse gestite. Una randellata che, secondo i diretti interessati, si ripercuoterà immediatamente sulle prestazioni. Così come è già successo con il rialzo operato da Mario Monti. «La tassazione delle rendite al 20%», ha spiegato il presidente dell’Adepp (l’associazione degli enti di previdenza delle professioni), Andrea Camporese, «ha comportato una contrazione delle pensioni dell’8%, che salirà al 10% se sarà confermato l’aumento». Non solo. L’inasprimento impositivo si andrebbe anche ad aggiungere ad un regime fiscale che, caso unico in tutta Europa, prevede che i contributi versati dai professionisti siano soggetti ad una doppia tassazione. La prima sui rendimenti delle somme affidati agli enti, la seconda sul vitalizio erogato successivamente, che, a differenza dei fondi pensione complementari, viene tassato per intero, compresa la quota di plusvalenza guadagnata nel corso degli anni.
L’anomalia è così evidente che anche il governo si sta rendendo conto del pasticcio. Ieri il sottosegretario al Lavoro, Massimo Cassano, ha ammesso che «il sistema è assai oneroso per la previdenza privata» e ha parlato di un «intervento normative teso ad alleggerire tale onere». Bene. Ma dove si prendono i soldi? Il governo ha quantificato in 50 milioni l’impatto sugli enti di previdenza dei professionisti. Per recuperarli c’è chi ha già un’idea. «Se non ci sono risorse aggiuntive per evitare l’aumento sulle Casse», ha detto il sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, solitamente allergico agli inasprimenti fiscali, «la proposta allo studio è quella di aumentare la tassazione dei fondi della previdenza complementare al 14 o 15%».
Ipotesi che, oltre ad essere dolorosa per le tasche dei lavoratori, potrebbe rivelarsi assai pericolosa per il settore. Malgrado gli sforzi, infatti, le adesioni alla fine del 2013 ammontavano a 6,2 milioni, con una quota di sottoscrittori attivi (che pagano i contributi) ferma al 20% della platea potenziale degli occupati. Difficile invertire la tendenza con dei balzelli aggiuntivi.
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