Precisazioni, repliche, persino minacce. È bastata una carezza per il verso sbagliato a far evaporare l’europeismo del governo. Poche parole piazzate nei punti nevralgici per mandare in pezzi un idillio che sembrava granitico. Può apparire sorprendente, ma il primo a perdere le staffe per le dichiarazioni del commissario Ue al mercato interno, Olli Rehn, è stato proprio Enrico Letta. Lo stesso che fino a ieri decantava le magnifiche sorti e progressive degli Stati Uniti d’Europa, lo straordinario sostegno di Bruxelles per lo sviluppo, il contributo imprescindibile dell’Unione per la ripresa dell’Italia. Roba vecchia, superata e sorpassata dall’affronto di Rehn, che nei giorni in cui il premier cerca di puntellare il governo spiegando che il mondo nuovo è dietro l’angolo, si permette non solo di accusare il nostro Paese di non aver fatto i compiti, ma addirittura di criticare la legge di stabilità.
«L’Italia», ha spiegato numeri alla mano il commissario in un’intervista a Repubblica, «deve rispettare un certo ritmo di riduzione del debito, e non lo sta facendo. Lo sforzo di aggiustamento strutturale avrebbe dovuto essere di mezzo punto del pil e invece è solo dello 0,1%». Quanto alle manovra, Rehn ha detto di aver preso nota «delle buone intenzioni del governo su privatizzazioni e spending review, ma lo scetticismo è un valore profondamente europeo e io ho il preciso dovere di restare scettico, fino a prova del contrario». Parole travisate? Traduzione non fedele? Macché. Mentre la lettura di Repubblica stava già facendo ribollire mezzo esecutivo il commissario ha bissato la performance durante un intervento al Lisbon Council di Bruxelles, spiegando che l’Italia «è chiaramente indietro rispetto agli altri Paesi sulle riforme per ripristinare la competitività» e che finora non «si sono visti sforzi sostanziali» in questo senso.
Apriti cielo. A poco è servita la discesa in campo dell’ex candidato alla presidenza della Repubblica, Romano Prodi, secondo cui «le parole di Rehn sono severe, ma hanno un fondamento di verità». Letta è subito passato al contrattacco, tentando di trasformare i sorrisi e le strette di mano dispensate fino a ieri in un tono di voce grosso e minaccioso. «Al commissario dico che i nostri conti sono in ordine», ha replicato il premier. «C’è una contraddizione», ha proseguito Letta tirando in ballo la possibile candidatura dell’euroburocrate alle prossime Europee, «nei termini usati da Rehn che, come commissario, ha il dovere di essere garante dei trattati Ue, in cui però non c’è la parola scetticismo, un tema che appartiene al dibattito politico che se vuole usare deve togliersi la giacca da commissario». Poi, la stoccata finale: «Altrimenti, si troverà un parlamento Ue carico di populismi e di euroscettici».
Più calmo, questa volta, Fabrizio Saccomanni, che nei mesi scorsi invece si era fatto saltare la mosca al naso per alcune previsioni economiche di Bruxelles. «Sono colpito dal fatto che una non notizia sia diventata un grosso tema di discussione». Da parte della Commissione, ha detto il ministro dell’Economia in trasferta a New York, «non c’è stata alcuna richiesta di misure correttive. È un’intervista concordata da tempo». Peccato che Rhen in serata abbia confermato le sue parole spiegando che «lo scetticismo si applica a tutti i Paesi» e deriva «dalla tendenza degli Stati a sovrastimare gli introiti delle privatizzazioni».
La levata di scudi del governo contro la Ue, a cui si sono rapidamente affiancati Pd (compreso Renzi) ed Ncd, non è piaciuta a Renato Brunetta, che pure con Bruxelles non ha mai avuto un bel rapporto. «Sarà anche sgradevole», ha detto il capogruppo di Forza Italia alla Camera, «ma non ci si può inchinare all’Europa quando conviene e non accettarne le critiche quando si esprime contro il governo. I giudizi dell’Ue o valgono sempre o non valgono mai». Il ragionamento, bisogna ammetterlo, non fa una grinza.
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