Il senso e i possibili esiti delle delicate trattative in sede europea dei prossimi dieci giorni stanno anche nel voto con cui ieri la Cdu ha dato il via libera al governo di grande coalizione con la Spd: nessuno dei 167 delegati si è espresso contro l’intesa. Una compattezza granitica che pone Angela Merkel ad un passo dal suo terzo mandato. Se tutto va come ci si aspetta, manca ancora il referendum nella Spd, la Cancelliera potrà presentarsi al tavolo del Consiglio Ue del 19-20 dicembre già alla guida del nuovo governo. E a quel punto i margini di manovra dei Paesi periferici potrebbero assottigliarsi ulteriormente.
I nodi da sciogliere sono pesanti come non mai. Soprattutto per il nostro Paese, che rischia di finire nuovamente nella lista dei sorvegliati speciali. Ieri sera, in sede di Eurogruppo, c’è stato il primo faccia a faccia tra il nostro Fabrizio Saccomanni e il severo Olli Rehn. Il commissario Ue, malgrado le proteste del premier Enrico Letta e del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, non ha affatto abbassato la guardia verso il nostro Paese. Ieri ha ribadito che tutto è appeso ai «ricavi delle privatizzazioni e della spending review». Se, come lui dubita, arriveranno le risorse previste nella legge di stabilità, allora per il 2014 si potrà riparlare di sbloccare la clausola sugli investimenti. Ma la questione non è così semplice, perché nel frattempo Rehn sembra intenzionato a chiedere al ministro dell’Economia anche quello 0,4% di deficit (circa 9 miliardi) che mancherebbe al nostro bilancio per essere in regola con il pareggio strutturale. Il primo duello, quello che andrà in scena oggi all’Ecofin, sarà sull’unione bancaria. I numerosi incontri riservati sotto la regia del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Scheauble, non hanno ancora portato ad un accordo. La Germania punta i piedi sul fondo di risoluzione, preoccupata che la creazione di un calderone europeo per i salvataggi delle banche finisca col diventare un aiuto indiretto ai Paesi che hanno riempito gli istituti con titoli di Stato. Di qui l’idea che l’unica soluzione sia quella di un coordinamento (sia per le risorse sia per le decisioni) tra i fondi di garanzia già esistenti a livello nazionale.
Ma il vero piatto forte di fine anno, di cui si discuterà al Consiglio Ue, ruota intorno ai cosiddetti contratti bilaterali di stabilità per il controllo preventivo dei bilanci dei Paesi a rischio su cui la Germania va avanti a testa bassa. Il tentativo dell’Italia sarebbe quello di rinviare il nodo al prossimo anno, dopo aver chiuso la partita dell’Unione bancaria. Ma è difficile che la Merkel (che continua a farsi beffe della Ue anche sulla questione del surplus commerciale, come dimostrano i dati di ieri sull’export) consenta di slegare le due cose. Ed è difficile che l’Italia abbia la forza di chiederlo.
L’unica possibilità è contare su un asse comune con Francia e Spagna, che potrebbe saldarsi già sul fondo di risoluzione per gli istituti di credito. «L'unione bancaria deve essere completata e lo faremo», ha promesso il presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso, che ieri, dopo aver incontrato Letta, ha anche ammorbidito le critiche all’Italia dicendo di «riconoscere i grossi sforzi fatti». Anche il premier ha ribadito l’importanza dell’unione bancaria, mentre Romano Prodi ha rotto gli indugi dicendo che è «venuto il momento di superare il rigore di Berlino» e gli «stupidi parametri» di Maastricht. Che detto da lui, oggi, fa un po’ sorridere.
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