sabato 14 dicembre 2013

Il debito vola a 2.085 miliardi. E Saccomanni gira il conto a noi

La mini-Imu? Per Fabrizio Saccomanni si tratta solo di «un eccesso di drammatizzazione». Anzi, il ministro dell’Economia, ascoltato al Senato sul decreto che ha abolito parzialmente la seconda rata della tassa, ha assicurato che da parte del governo non c’è stata «alcuna volontà di dar fastidio al contribuente». Tanto è vero, ha proseguito senza battere ciglio, che la scadenza per il pagamento, il prossimo 16 gennaio, «è stata fissata il più tardi possibile, compatibilmente con la necessità di contabilizzare le entrate nel 2013». Non solo, «qualora ai Comuni venga assegnato un ammontare di risorse superiore a quanto necessario l’eccedenza verrà restituita dai Comuni ai contribuenti».

Ben diverso, invece, è il discorso di una possibile restituzione dell’esborso attraverso sgravi o compensazioni sulle prossime tasse. Dopo aver spiegato che il decreto Imu è «uno strumento per sostenere le famiglie» e che il governo ha fatto tutto il possibile per alleggerire il peso del fisco, Saccomani ha aggiunto che «un completo sgravio richiedeva risorse aggiuntive da recuperare per mantenere il deficit entro la soglia del 3%». Soglia a cui, però, siamo ancora «molto vicini e ogni flessibilità avrebbe conseguenza molto sgradevoli». Ergo, scordatevi detrazioni che non siano di facciata.

I conti del resto, malgrado lo spolpamento continuo dei contribuenti, si ostinano a non voler tornare. A ottobre, stando al bollettino diffuso ieri da Bankitalia, il debito ha toccato un nuovo record a quota 2.085 miliardi. Si tratta di un incremento da inizio anno di circa 96 miliardi e di 18 miliardi in più rispetto a settembre. E mentre il buco si allarga, le entrate si assottigliano sempre più. Nei primi dieci mesi il gettito tributario è stato di 307,8 miliardi, in calo di 1,4 rispetto ai 309,3 dello stesso periodo del 2012.
A completare il quadro Via Nazionale ha anche snocciolato i numeri sulla ricchezza delle famiglie, che dal 2007 è andata a picco del 9%, con una contrazione costante che non accenna a diminuire. Anzi, se nel 2012 la diminuizione si è attestata allo 0,6% (con 143mila euro pro capite e 8.542 miliardi complessivi, -2,9% in termini reali) nei primi sei mesi del 2013 la flessione è arrivata a quota -1%.

Uno scenario complessivo che preoccupa non poco gli esperti di S&P. L’agenzia di rating questa volta non ci ha declassato, ma il giudizio resta BBB con outlook negativo. Il che significa che siamo sull’orlo del baratro. Standard and Poor’s punta il dito inanzitutto sull’elevato debito pubblico e «sulla debolezza delle propesstive di crescita». Ma si dice anche «incerta» sulla capacità delle forze politiche di realizzare le riforme. Senza le quali il rating scenderà ancora. «C’è almeno una possibilità su tre che la valutazione possa essere abbassata nei prossimi 12 mesi», hanno spiegato dall’agenzia, che per il prossimo anno prevede un deficit al 3% contro il 2,5 stimato dal governo.
Saccomanni, che evidentemente temeva un’altra sforbiciata, ha accolto positivamente il verdetto. S%P, si legge in una nota di Via XX Settembre «sottolinea che l’attuazione delle politiche già intraprese dal governo escluderebbe ipotesi di downgrade». Commento ben diverso da quello di inizio luglio, quando il ministro, all’indomani del downgrade, accusò l’agenzia di «prendere decisioni destabilizzanti basate sulla estrapolazione meccanica dei dati passati».
Sulla questione Bankitalia, infine, il ministro ieri ha difeso la riforma, spiegando che la rivalutazione delle quote potrebbe includere clausole a tutela della proprietà italiana dell’istituto e arrivare gradualmente a un tetto del 3% per ciascun socio per rendere ancora più diffuso l’azionariato.

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