Non bastavano le trappole della burocrazia, le persecuzioni esattoriali, la pressione fiscale da paese scandinavo (con servizi da terzo mondo). Oltre a tassare e tartassare ogni piccolo tassello della nostra esistenza, come previsto dalle norme di legge, ora si scopre che la Pubblica amministrazione sui balzelli ci fa pure la cresta. Errori, sviste, malafede? Difficile dirlo. Ma la sostanza cambia poco. In circa un comune su tre l’imposta sui rifiuti è sballata, calcolata in maniera illegittima con importi che possono arrivare fino al doppio del dovuto.
Che nella diabolica Tari ci fosse qualcosa di storto lo sospettano da tempo praticamente tutti. Il balzello (l’unico sempre esentato dal blocco degli aumenti del fisco locale) nel corso degli ultimi anni ha cambiato nome e metodo di calcolo più volte di un partito politico. Dalla Tia del 1993 si è passati alla Tarsu del 1994. Poi, passando per la Tares del 2012, si è finalmente arrivati alla Tari (che per un periodo, in abbinata con l’Imu, si è pure chiamata Trise), in vigore dal 2014. Ad ogni nuovo acronimo il governo, tanto per non confondere ulteriormente i contribuenti, ha anche ritoccato le modalità per arrivare alla cifra che troviamo in bolletta. Con lo sguardo sempre rivolto alla «semplificazione». Basti pensare, ad esempio, che per calcolare la base imponibile della Tari deve essere presa in considerazione la sola superficie calpestabile dello stabile o dell’unità locale al netto dei muri interni, dei pilastri e dei muri perimetrali e non tenendo conto dei locali con altezza inferiore a 1,5 metri. Facile, no?
Il risultato è che nessuno conosce con esattezza qual è il metodo attuale. Né i cittadini che devono pagare né, ed ecco il paradosso, gli enti locali che devono esigere. Di qui la lotteria delle bollette impazzite in un terzo dei comuni italiani. L’ingarbuglio in cui sono rimasti impigliati i tecnici delle amministrazioni locali riguarda la quota variabile che è legata al numero degli abitanti della casa e si aggiunge alla quota fissa, che è quella ricavata dall’astruso calcolo della superficie calpestabile. Alcuni comuni hanno applicato la quota variabile una sola volta ad abitazione, altri l’hanno invece moltiplicata per il numero di pertinenze. Vale a dire che se avete un box, una cantina o o una soffitta per il fisco locale il vostro appartamento si trasforma d’incanto in una caserma, con decine di residenti. E la bolletta sale.
Peccato che la pratica non sia legittima. A rivelarlo è stato qualche giorno fa il sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, rispondendo ad una interrogazione parlamentare del deputato grillino Giuseppe L’Abbate basata su un’inchiesta del Sole 24 Ore. Il bello è che per saperlo non bastava guardarsi la legge che ha istituito la Tari, dove non c’è traccia della questione. La corretta applicazione del balzello sarebbe incredibilmente contenuta nell’allegato al Dpr 158 del 1999 e in un Prototipo di Regolamento per l’istituzione e l’applicazione della Tares predisposto dal dipartimento delle Finanze nel 2013.
A cadere nell’errore non sono stati solo piccoli paesini di provincia, magari meno provvisti di alte professionalità tecniche, ma grandi centri urbani, tra cui Milano, Genova, Napoli, Catanzaro, Cagliari ed Ancona. Il che significa che ora ballano nei bilanci comunali diverse centinaia di milioni di gettito. Già, perché dopo l’interpretazione corretta del ministro dell’Economia il contribuente può anche correre ai ripari. Chi ha poca dimestichezza con le bollette può rivolgersi agli sportelli SOS Tari aperti dalle sedi territoriali del Movimento difesa del cittadino. Per essere aiutati basta inviare una mail e l’associazione si occuperà di fare le relative verifiche ed eventualmente chiedere il rimborso. In alternativa, si può provare a verificare autonomamente la propria posizione, esaminando il dettaglio delle somme, dove dovrebbero essere indicati le unità immobiliari, la superficie tassata, il numero di occupanti e le quote fissa e variabile. Se risulta una imposizione anche per le pertinenze bisogna rivolgersi direttamente al comune per chiedere la restituzione di quanto indebitamente pagato o una compensazione sulle bollette future. Operazione che va, però, fatta entro cinque anni dal giorno del versamento. Dopo tale termine, in base alla legge 296/2006, il contribuente decade dal diritto. In caso di rifiuto (espresso o tacito) da parte della pubblica amministrazione si può fare ricorso.
Per il futuro c’è chi, come Utilitalia (la Federazione delle aziende che si occupano di ambiente, acqua e energia), invoca «l’attivazione di una regolazione indipendente, capace di tutelare i cittadini». È necessario, ha spiegato il presidente Giovanni Valotti, «definire un sistema tariffario certo che minimizzi i costi finali a carico degli utenti».
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