Difficile dire cosa sarebbe accaduto al sistema bancario italiano con un altro governatore della Banca d’Italia. Certo è che le cose negli ultimi anni sono andate tutt’altro che bene. L’elenco delle perdite pubbliche e private accumulate con i principali dissesti creditizi è da pelle d’oca. Per il crac di Pop Etruria, CariChieti, BancaMarche e CariFerrara, partito con il commissariamento del febbraio 2015, gli azionisti hanno visto andare in fumo 1,8 miliardi, gli obbligazionisti 800 milioni.
Mentre l’iniezione di capitale a carico degli istituti di credito, con l’aiuto della Cdp, attraverso il Fondo interbancario e il Fondo di risoluzione è stata di 5,8 miliardi. In tutto si tratta di 8,4 miliardi, che a tutti sembrarono allora una montagna di soldi. In realtà, non era che l’inizio. Il fallimento, alla fine del 2016, del salvataggio privato del Monte Paschi, che era già costato ai soci 13 miliardi di aumenti di capitale, ha provocato danni ben più ingenti. L’azzeramento delle azioni ha bruciato 6 miliardi, quello delle obbligazioni altri 2,2. E qui il colpo è arrivato anche ai contribuenti. Attraverso la «ricapitalizzazione precauzionale» lo Stato è infatti entrato direttamente nella proprietà (al 52,2%), con un esborso di 3,85 miliardi, e si è impegnato a risarcire i piccoli obbligazionisti per 1,5 miliardi. In tutto fanno 27 miliardi. È andata ancora peggio con il recente fallimento di Veneto Banca e Pop Vicenza. Dove le azioni andate in fumo valevano 11 miliardi e le obbligazioni 1,3. Il costo per il sistema bancario in questo caso è stato di 3,5 miliardi, mentre quello a carico dello Stato addirittura di 17 miliardi, di cui 4,8 per il rafforzamento patrimoniale dei due istituti e altri 12,3 a titolo di garanzia sui finanziamenti in sofferenza. Complessivamente 17 miliardi. Mettendo insieme tutte l’elenco, si arriva alla somma monstre di oltre 68 miliardi, a cui bisogna aggiungere i 3,2 miliardi di Gacs (garanzia statale sui crediti deteriorati), i circa 2 miliardi già persi con la quotazione di Mps e gli oneri aggiuntivi scaricati dagli istituti sui correntisti per rientrare delle somme spese per i salvataggi. Senza contare che sul groppone delle banche «salvate» gravano ancora tonnellate di sofferenze per complessivi 70 miliardi di euro.
Di fronte a tali, enormi, quantità di denaro uscite dalle tasche di privati e contribuenti, il tormentone preferito dalle parti di Via Nazionale è che di più non si poteva fare. La Banca d’Italia è «una istituzione seria» che ha «fatto il massimo possibile» e scongiurato molte crisi e «i risparmi degli italiani sono al sicuro», diceva Ignazio Visco nel dicembre 2015. «Ci sono pochissime banche Etruria in un sistema bancario solido», assicurava nello stesso periodo il vice dg Luigi Federico Signorini.
Dopo, purtroppo, si è scoperto che di banche come quella presieduta nell’ultimo periodo dal papà dell’attuale sottosegretario alla presidenza Maria Elena Boschi (ieri «malata» quando il cdm ha confermato il governatore Visco per altri sei anni) ce ne erano tante. E anche molto più grandi. Certo, la vigilanza di Palazzo Koch non poteva sicuramente evitare l’avvitamento del nostro sistema bancario, zeppo di criticità strutturali. Né, forse, opporsi con successo alle trappole europee, considerato l’isolamento italiano rispetto ai Paesi del Nord. Visco, però, siede nel board della Bce. E il membro del Direttorio Fabio Panetta in quello della Vigilanza Ue (che ha recentemente emanato delle linee guida sulla gestione delle sofferenze che metterebbero in ginocchio il nostro Paese). Prima di lanciare parole rassicuranti sulla famigerata direttiva europea Brrd, che alla fine del 2015 ha fatto scattare in Italia il bail-in, però, Bankitalia poteva pensarci due volte. Tanto più che dopo il primo assaggio con le quattro banche finite in risoluzione è stata la stessa Via Nazionale a criticare la norma, chiedendo modifiche e più gradualità. Nessuno mette in dubbio l’impegno di Palazzo Koch e del suo longevo governatore. Ma in un Paese dove non si riesce ancora ad imporre alle banche il rispetto dell’odioso anatocismo (gli interessi sugli interessi), il sospetto che proprio tutto il possibile non sia sempre stato fatto viene.
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