venerdì 18 agosto 2017

Rivolta silenziosa dei preti per anticipare la pensione

Incassare la pensione con un anno di anticipo. Malgrado un deficit annuo del Fondo clero che dal 2002 oscilla tra i 56 e i 115 milioni e un disavanzo patrimoniale arrivato a quota 2,2 miliardi di euro, il mondo ecclesiastico è sceso in campo per sfruttare a proprio vantaggio il dibattito sull’aumento dell’età pensionabile a 67 anni di cui il governo dovrà occuparsi in autunno.

La questione è nota: in base ad una norma del 2010, la cui entrata in vigore è stata anticipata dalla legge Fornero dal 2015 al 2013, ogni tre anni i requisiti di pensionamento vengono adeguati automaticamente sulla base dell’aspettativa di vita calcolata dall’Istat. Secondo gli attuali scenari demografici, a gennaio 2019 l’età per la pensione di vecchiaia salirebbe dagli attuali 66 anni e 7 mesi a 67 anni.
La decisione di confermare o meno tale slittamento, che deve essere presa nei prossimi mesi e ha già provocato diverse spaccature nella maggioranza, ha attirato l’attenzione anche dei sacerdoti, che, in realtà, hanno un sistema previdenziale completamente diverso dall’assicurazione generale obbligatoria. A gestire la quiescenza dei ministri di culto di tutte le confessioni, tranne quella ebraica, è il Fondo di previdenza del clero e dei ministri di culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, che eroga gli assegni sulla base di un sistema di calcolo né retributivo né contributivo. La prestazione è definita in forma fissa ed è lontana da quelle che vengono definite le pensioni d’oro. L’assegno è infatti equiparato al trattamento minimo in vigore per gli iscritti all’Inps, ovvero 620 euro lordi (205 euro netti) al mese. Il che non significa che il trattamento non sia generoso. Stando alle rilevazione dell’Istituto di previdenza, che gestisce il fondo, calcolando la prestazione con il sistema contributivo, gli attuali 14mila assegni erogati sarebbero decurtati di una percentuale che oscilla dal 40 al 60%. Non solo. Circa il 72% dei pensionati risulta titolare di altre pensioni con importi medi di 1.000 euro lordi mensili.

Giusto o sbagliato che sia, il dislivello tra contributi e prestazioni sta trascinando il Fondo verso il baratro contabile. Una situazione ben nota, che non sembra tuttavia preoccupare più di tanto il mondo cattolico. Anzi, c’è pure chi pensa di sfruttare il polverone alzato sull’adeguamento all’aspettativa di vita per limare un po’ l’età pensionabile dei sacerdoti. Una norma inserita nella finanziaria del 2000 ha infatti fissato a 65 e 40 anni di contributi la pensione anticipata e a 68 anni quella di vecchiaia. Un requisito, quest’ultimo, a cui dal 2013 (secondo quanto previsto dalla Fornero) si applicano gli adeguamenti automatici previsti per tutti gli iscritti all’Inps. Il risultato è che oggi i preti vanno in pensione a 68 anni e 7 mesi, più tardi dunque degli altri. Di qui la riflessione apparsa ieri sull’Avvenire, che non si occupa tanto del blocco dell’età pensionabile, quanto di possibili (e auspicati) interventi legislativi. Le ipotesi sul terreno, scrive il quotidiano cattolico, sono due: «Nessun intervento e quindi la riforma resta com’è senza modifiche» o «una nuova legge che stabilisce i 67 anni per tutte le pensionidi vecchiaia».
Nel primo caso, si legge, per gli iscritti al Fondo clero si confermerebbe «il danno economico, tuttora in corso, subìto a causa dell’interpretazione della riforma». Nel secondo, «ci sarebbe un modesto risarcimento alla categoria che, a causa della imposizione della speranza di vita, ha dovuto proseguire i versamenti contributivi oltre l’età di legge». Il concetto è chiaro: la Chiesa tifa per l’aumento, con la speranza di ottenere una riduzione.

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