domenica 2 aprile 2017

La sinistra fa le coccole agli statali

Mentre i tecnici del ministero dell’Economia stanno affannosamente cercando di rastrellare i 3,4 miliardi chiesti dall’Europa per la manovra correttiva e non sanno dove mettere le mani per trovare i 19,5 miliardi necessari a disinnescare l’aumento dell’Iva nel 2018 previsto dalle clausole di salvaguardia, il governo ha deciso le sue priorità: altri 1,2 miliardi in tasca agli statali. Può sembrare strano, ma è proprio questa una delle prime cifre fatte trapelare dagli uffici che stanno lavorando al Documento di economia e finanza che dovrà essere presentato entro il 10 aprile.

Che l’accordo frettolosamente siglato a dicembre tra la ministra della Pa Marianna Madia e i sindacati a pochi giorni dal voto referendario comportasse ulteriori esborsi era noto. Per raggiungere gli 85 euro di aumento medio concesso dal governo alle sigle nella speranza di trovare il sostegno elettorale di una buona fetta degli oltre 3 milioni di dipendenti pubblici, si calcolò allora, servono almeno 2,5 miliardi. Con gli stanziamenti già previsti, i 300 milioni del 2016 non usati e i 900 milioni ricavati solo qualche settimana fa dalla Madia con la ripartizione delle risorse destinate al comparto pubblico dalla legge di stabilità si arriva ad 1,2 miliardi. Per arrivare a dama ne mancano almeno altrettanti, che Palazzo Chigi ha già assicurato nei mesi scorsi che saranno recuperati nelle pieghe della prossima manovra finanziaria. Questa volta, però, il leader del Pd Matteo Renzi, considerata la complicata campagna elettorale alle porte e la débâcle referendaria, non vuole limitarsi alle promesse verbali. E tra i vari diktat fatti pervenire al premier Paolo Gentiloni, fra cui il divieto di aumentare l’Iva e la nuova decontribuzione per i neoassunti con meno di 35 anni (costo stimato un milardo), si è anche premurato di far scrivere nero su bianco nel Def la cifra da destinare ai dipendenti pubblici.
Certo, a dicembre era stato preso un impegno e gli statali sono senza contratto da circa 7 anni. Ma nel frattempo la Ue ci ha chiesto altri soldi, le banche continuano ad andare a picco e l’economia non riparte. Coccolare i sindacati della Pa prima di ogni altra cosa potrebbe non essere la migliore strategia con cui recuperare la fiducia persa.

Anche perché la categoria, soprattutto se messa a confronto con i colleghi del privato non se la passa poi così male. Solo qualche giorno fa il ministero del Lavoro ha pubblicato le ultime rilevazioni del Sistema delle comunicazioni obbligatorie secondo cui nel 2016, considerando tutte le fattispecie (sia individuali sia collettive), i datori di lavoro hanno effettuato 899mila licenziamenti, con un aumento del 5,7% sul 2015.
Un dato che non soprende più di tanto, considerato i milioni di posti persi con la crisi e le percentuali elevatissime sulla disoccupazione (all’11,7% quella generale e 40,1% quella giovanile), ma stride se paragonato a quello che accade nella Pa, dove non solo non ci sono i licenziamenti economici o quelli per giustificato motivo oggettivo , ma restano anche assolutamente intatte le tutele dell’articolo 18 spazzate via dal jobs act per gli altri lavoratori. Ebbene, nel 2015, secondo gli ultimi dati dell’Ispettorato della Funzione pubblica, ci sono stati in totale 280 licenziamenti, di cui 108 per assenze ingiustificate, 94 per reati, 20 per doppio lavoro, 57 per negligenza  e uno per irreperibilità alla visita fiscale.

Un numero persino aumentato rispetto ai 227 del 2014, ma sideralmente lontano dai 900mila del privato. Dove, tra l’altro, i giorni medi di assenza al netto delle ferie sono 11 e non 19 come nella Pa e le malattie di un giorno sono il 12,1% del totale e non il 25,7%.
Anche sugli stipendi, malgrado il blocco di 7 anni, non c’è partita. Dal 2000 ad oggi la forbice si è addirittura all’argata. Diciassette anni fa, secondo le elaborazioni dell’Aran (che rappresenta la Pa nelle trattative contrattuali) su dati Istat la retribuzione lorda procapite degli statali era di 24.797 euro, quella dei privati 19.518. Con una differenza di 5.279 euro. Nel 2015, ultime rilevazioni disponibili, lo stipendio nelle imprese è aumentato a 28.084. Ma quello nel pubblico è schizzato a 33.763, con un differenziale di 5.679 euro.
Cifre che, inoltre, vengono tenute basse da alcuni comparti, come quello della scuola, che ha una retribuzione media procapite di 28.343 euro e si è dovuta accontentare di un modesto incremento, dal 2005, dell’11,8%. Ma tra i funzionari della pubblica amministrazione c’è anche chi, come i collaboratori del premier alla presidenza del Consiglio, in un decennio è riuscito ad ottenere un aumento da sogno del 45% dello stipendio e ora intasca in media 57.240 euro l’anno. Regalargliene altri 85 forse non è il primo pensiero dei contribuenti.

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