Legare i premi di produttività degli statali, come fa in sostanza la riforma Madia, al semplice fatto di recarsi sul posto di lavoro era già sembrato a molti un modo bizzarro di intendere la meritocrazia. Ma per i sindacati non è ancora sufficiente. Per spazzare via anche l’ultimo, sottile filo che ancora lega l’impiego pubblico al lavoro privato le sigle ora pretendono di separare del tutto il salario accessorio dal tasso di presenza del dipendente.
La richiesta ufficiale fatta pervenire dai segretari generali di Cgil, Cisl e Uil alle commissioni parlamentari che in questi giorni stanno esaminando il decreto legislativo sul pubblico impiego non è ovviamente messa in questi termini. Ma la sostanza cambia poco.
La tesi illustrata nel documento firmato da Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo è che debba essere «la contrattazione a stabilire quelle forme premianti che, legate ai tassi di produttività, disincentivino e contrastino eventuali fenomeni anomali di assenteismo». Per questo motivo le sigle sollecitano «la cassazione» dalla riforma «delle clausole di riduzione delle risorse destinate al trattamento accessorio».
L’appiglio dei sindacati rimanda direttamente alla demolizione della riforma Brunetta, su cui la ministra della Pa, Marianna Madia, incontrando le sigle lo scorso novembre, alla vigilia del referendum costituzionale, ha deciso di passare un robusto colpo di spugna. Oltre a cancellare il precedente meccanismo della premialità, che avrebbe rischiato di lasciare a bocca asciutta il 25% degli statali più fannulloni, la titolare della Funzione pubblica ha anche decretato l’addio alla centralità della norma a favore dei contratti nazionali. Per evitare la resa totale ai sindacati, però, il testo prevede alcuni deboli paletti. Tra cui non quello di ridurre le risorse, come sostengono Cgil, Cisl e Uil, ma di «impedire incrementi della consistenza complessiva delle risorse destinate ai trattamenti economici accessori nei casi in cui i dati sulle assenze evidenzino significativi scostamenti rispetto ai dati medi annuali nazionali o di settore». Il minimo sindacale, verrebbe da dire, per evitare che anche le amministrazioni più negligenti vengano ricoperte di premi.
Tutt’altra la versione della triplice, secondo cui tali indicazioni «esulano dalle competenze legislative», poiché «la differenziazione del salario accessorio sulla base della misurazione delle performance» deve essere «un’attinenza contrattuale».
Così come risulta «inaccettabile» per le sigle il semplice accostamento, che viene fatto nel testo, tra «sanzioni disciplinari» e «valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio». Si tratta, scrivono i sindacati, di un collegamento «pericoloso». Scarso rendimento e comportamenti contro le regole, spiegano, andrebbero distinti, altrimenti «si rischia di ingenerare arbitrio e conseguente contenzioso». In altre parole, la violazione degli obblighi di legge, regolamentari o contrattuali, non può portare automaticamente ad una valutazione negativa ai fini delle performance. Un premio, nella Pa, non si nega a nessuno.
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