Ma andiamo con ordine. L’obettivo immediato del governo è quello di portare a casa tutti gli sconti chiesti alla Ue sulla legge di stabilità 2016. Si tratta (oltre allo 0,4% della clausola per le riforme già concessa per 6,4 miliardi) di uno 0,3% (4,8 miliardi) per gli investimenti, di un altro 0,1% (1,6) per le riforme e dello 0,2% (3,3) per le spese sostenute sul fronte sicurezza e immigrati.
Già qui le cose potrebbero andare diversamente da come spera Renzi. Su riforme e investimenti non dovrebbero esserci molti problemi. Ma ottenere quello 0,2% in più di flessibilità, peraltro utilizzato dal premier senza consultazioni preventive com Bruxelles, sarà tutt’altro che agevole. Oltre alle questioni politiche e alla macroscopica anomalia delle elargizioni (come il bonus studenti da 550 euro) inserite nel provvedimento sulla sicurezza, ci sono anche questioni di carattere tecnico. Secondo i tecnici dell’Ufficio parlamentare di bilancio, stando alle indicazioni finora fornite dalla Commissione Ue, «l’Italia non dovrebbe poter usufruire nel 2016 di margini di flessibilità legati all’emergenza migranti».
Il problema, si legge in un focus diffuso ieri dall’organismo di controllo indipendente, è che la spesa connessa all’afflusso di migranti per quest’anno indicata nel Documento programmatico di bilancio, pur risultando superiore alla media del triennio 2011-2013 (circa 1,2 miliardi), è in linea con quella del 2015 di 3,2 miliardi. Mentre la Commissione ha specificato che per usufruire della flessibilità i costi saranno conteggiati solo nel limite dell’aumento rispetto all’anno precedente. Quindi, a meno che in sede di consuntivo non si registrino spese documentabili superiori alle previsioni, Renzi si può scordare i 3,3 miliardi aggiuntivi di tolleranza. Timore che sta circolando a via XX Settembre. Come dimostra la nota diffusa ieri sera, in cui si legge che nel Documento programmatico di bilancio «sono state individuate le soglie che possono essere considerate fisiologiche e quindi si è fornita evidenza dell’incremento di spesa dovuto alle circostanze eccezionali».
Ma le grane più grosse riguardano i prossimi anni, dove il premier pensa di poter contare su ulteriore flessibilità per realizzare i promessi tagli di tasse. Nel Rapporto sulla finanza pubblica europea diffuso qualche settimana fa già si capisce come la pensa Bruxelles. Piuttosto che chiedere altri aiuti, l’Italia dal 2017 deve rispettare la regola del debito (quest’anno l’indebitamento è al livello monstre del 131,4% del pil secondo il governo e del 132,2% del pil secondo la Ue) prevista dal Fiscal compact, mantenendo fino al 2026 il saldo primario (differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito) di 1,3 punti percentuali al di sopra di quanto stimato (2,5% del pil). Un livello ben più alto della media del 2,4% registrata dall’Istat tra il 1994 e il 2014 e sideralmente lontano dall’1,3% ottenuto nei primi nove mesi del 2015.
Oltre a questo, la fine degli sconti costringerà anche il governo ad operare per intero i tagli del deficit/pil previsti dal patto di stabilità per conseguire il pareggio di bilancio strutturale, già slittato al 2018. Se si tiene conto anche delle clausole di salvaguardia (15,13 miliardi nel 2017 e 19,57 nel 2018) significa che per il prossimo anno sono già impegnati circa 25 miliardi, che salgono a 30 nel 2018.
I soldi andranno inseriti nella prossima manovra di autunno, ma i conti andranno fatti molto prima, in occasione del Documento di economia e finanza che dovrà essere licenziato dal governo, e spedito a Bruxelles, entro il 10 aprile. Il giudizio finale della Ue arriverà a maggio-giugno. Ma già la prossima settimana potrebbe esserci il primo verdetto. Se l’Italia sarà ancora nella lista dei Paesi con gravi squilibri macroecnomici, partirà subito un warning, primo stadio della procedura d’infrazione.