Gli esami si avvicinano e dall’Europa continuano ad arrivare solo schiaffi. Matteo Renzi avrebbe dovuto impiegare i mesi che separano la sospensione del giudizio sulla manovra, concessa da Bruxelles lo scorso novembre, dai primi verdetti ufficiali, che inizieranno a febbraio, per ammorbidire le spigolosità della Commissione sulle capriole contabili dell’Italia. Ma al posto di schiarite l’orizzonte continua a proporre solo temporali.
Nell’arco di una decina di giorni il premier ha incassato la bocciatura della Commissione sul percorso italiano di rientro dal debito, la clamorosa bacchettata di Jean Claude Juncker sulla mancanza di collaborazione e il gelo di ieri di Angela Merkel sulle richieste di flessibilità. Un combinato disposto che non lascia presagire nulla di buono per i contribuenti italiani che presto, forse già dal prossimo Documento di economia e finanza, potrebbero essere bruscamente risvegliati dalle illusioni generate dalla narrazione renziana sulle tasse che scendono.
Il primo step da affrontare sarà quello dell’aggiornamento di Bruxelles sugli squilibri macroeconomici eccessivi. Lì, con tutta probabilità, ci sarà il primo richiamo formale, con il mantenimento dell’Italia nella lista dei cattivi. Il giudizio complessivo sulla manovra arriverà invece in primavera, presumibilmente maggio. Quello sarà l’appuntamento cruciale per verificare se l’Europa accetterà le richieste dell’Italia sulle numerose clausole di flessibilità. La posta in gioco è altissima. Oltre allo 0,4% del pil (6,4 miliardi) già ottenuto per le riforme, Renzi ha chiesto un altro 0,1% sempre sulle riforme, uno 0,3% sugli investimenti e uno 0,2% sui migranti/sicurezza. Si tratta di altri 10 miliardi che fanno salire il totale degli sconti a circa un punto di pil (il deficit/pil per quest’anno doveva essere all’1,4%, sarà invece al 2,4%).
Il problema non è tanto quest’anno, ma i prossimi. Sulla legge di stabilità approvata a dicembre Bruxelles potrà limare qualche decimale, ma l’orientamento complessivo non dovrebbe riservare grosse sorprese. Tutt’altra la questione a partire dal 2017, dove la Commissione ha già detto chiaramente che per rispettare la regola di riduzione del debito prevista dal Fiscal compact l’Italia dovrebbe avere l’avanzo primario (saldo fra entrate e uscite dello Stato al netto degli interessi su bot e btp) intorno al 3,8% fino al 2026. Il governo ha invece previsto un avanzo al 2,5% e non è neanche detto che riesca a mantenere l’impegno. Renzi, infatti, contava di giocare la carta della flessibilità anche per i prossimi anni.
Ma l’aria che tira sembra precludere questa strada. E il governo dovrà tirare le somme in fretta. Ad aprile bisognerà, infatti, presentare il Def con l’aggiornamento del programma di stabilità. Di fatto Renzi dovrà dire dove troverà i soldi per rispettare gli impegni con la Ue per i prossimi tre anni, a partire dal taglio del deficit/pil dello 0,5% annuo per raggiungere il pareggio di bilancio ed evitare la procedura di infrazione. Il passaggio non sarà indolore. Anche perché a bocce ferme, già ci sono sul tavolo 35 miliardi di tasse, che arrivano dalle clausole di salvaguardia per il 2017 e il 2018 che il governo si è ben guardato dal disinnescare.
Chi si è fatto due conti sostiene che già con la manovra di autunno Renzi dovrà tirare fuori dal cilindro per la correzione dei conti almeno 30 miliardi.
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