Certo, il capitalismo di Stato ha stufato, le controllate del Tesoro e la Cdp spuntano come il prezzemolo in ogni operazione di salvataggio o di ritocco dei conti pubblici, le privatizzazioni stentano a decollare, il mercato non vince mai e i contribuenti perdono sempre. Ma è difficile pensare che dietro tutta l’indignazione che sta montando in queste ore contro i 75 milioni messi sul piatto da Poste Italiane, controllata al 100% dal tesoro, per salvare Alitalia ci sia un esercito di novelli liberisti che vogliono far uscire lo Stato dall’economia, lasciando che le imprese se la cavino da sole, finendo all’estero o magari anche fallendo.
Anche perché negli ultimi anni di soldi degli italiani i governi ne hanno spesi parecchi. E i pruriti antistatalisti spesso sono rimasti ben chiusi nel cassetto. È vero che il fardello Alitalia, al di là dell’ultimo passaggio, è costato parecchio agli italiani. Le stime non sempre concordano, ma la cifra complessiva dell’operazione Fenice, tra prestito ponte, accollamento della bad company e ammortizzatori sociali, si aggira tra i 3,5 e i 4,5 miliardi di euro.
Siamo sicuri, però, che i contribuenti non ne abbiamo spesi altrettanti per i numerosi salvataggi di cui si è fatto carico lo Stato nell’epoca recente? Seppure in modalità meno visibili, e meno sfruttabili in termini politici, non essendoci sempre Silvio Berlusconi di mezzo, di quattrini dalle casse del Tesoro e da quelle degli italiani negli anni scorsi ne sono usciti tanti.
Chi non ricorda ad esempio la drammatica protesta dei minatori del Sulcis o gli scontri di piazza dei lavoratori dell’Alcoa? Ebbene, il costo complessivo del salvataggio dell’area industriale del Carbosulcis ci è costata circa 3,5 miliardi di euro. In ballo, rispetto ai 14mila lavoratori dell’Alitalia (che nel 2008 erano, compresi quelli di AirOne, circa 22mila), c’erano complessivamente circa 2mila posti di lavoro. Una parte dell’esborso pubblico è quella messa in campo nel novembre del 2012 dal governo guidato da Mario Monti con il cosiddetto Piano Sulcis: 451 milioni di euro (di cui 233 a valere su fondi regionali e locali, 128 dal fondo Sviluppo e coesione, 90 del governo nazionale) per un progetto di sviluppo del territorio relativamente agli insediamenti industriali di Eurallumina, Carbosulcis, Portovesme. A questo si aggiungono i circa tre miliardi di sconto sull’energia per l’Alcoa pagato da tutti gli italiani in bolletta dal 1995 al 2012. A cosa è servito tutto questo denaro pubblico? È presto detto: i lavoratori di Eurallumina sono tutti in cassa integrazioni, quelli dell’Alcoa, che ha chiuso i battenti e se ne è andata, pure. Gli unici che sono tornati al lavoro sono i 462 minatori del Carbosulcis.
Sempre sotto il governo Monti arriva a conclusione il lungo percorso della privatizzazione della Tirrenia. La compagnia di navigazione viene ceduta alla Cin, Compagnia italiana di navigazione, una cordata formata da Moby (40%), Clessidra (30%), Gruppo Investimenti Portuali (20%) e Shipping Investments (10%). Per arrivare fino al traguardo, però, lo Stato ha dovuto puntellare le società del gruppo Tirrenia con 500 milioni di aiuti pubblici, che sono ancora sotto la lente dell’Unione europea. Ora, almeno, la compagnia, con i suoi 3mila dipendenti, naviga e guadagna.
Ben diversa è la situazione di Termini Imerese, lo stabilimento dismesso dalla Fiat. Dopo mesi e mesi di trattative, nel febbraio del 2011, il governo allora guidato da Berlusconi, con il consenso di tutte le forze politiche, mise sul piatto 450 milioni di aiuti: 300 milioni per l’accordo di programma e 150 milioni per riqualificare il polo. Anche in questo caso, un flop. Alla fine di quest’anno scadrà il termine della cassa integrazione per i 2mila lavoratori e nessun investitore si è ancora fatto avanti. Proprio ieri, attraverso altri soldi pubblici, è arrivato l’accordo del ministero dello Sviluppo per altri sei mesi di cig in deroga a partire da gennaio.
Che dire poi del decennale sostegno pubblico arrivato nelle casse del Lingotto. Calcoli abbastanza attendibili hanno quantificato, tra incentivi per la rottamazioni, contratti di programma, aiuti alla formazione e contributi alla costruzione degli impianti di Melfi e Pratola Serra, una cifra complessiva tra il 1977 e il 2013 di 7,6 miliardi di euro. Un bel gruzzolo per il gruppo della famiglia Agnelli, che attualmente, con i suoi sei impianti dà lavoro a 24mila dipendenti.
Infine, nell’elenco meritano di essere inseriti anche i 4,1 miliardi concessi dallo Stato ad Mps attraverso la sottoscrizione dei cosiddetti Monti bond. In questo caso si tratta di un prestito, ma per riconoscerlo come tale (e non come aiuto di Stato), Bruxelles ha preteso che la banca senese varasse un piano lacrime e sangue di tagli (8mila uscite su 28mila dipendenti) e ricapitalizzazione (aumento da 2,5 miliardi).
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