Qualcuno, senza mezzi termini, ha parlato di abbaglio. Di sicuro, con buona pace di chi si è subito avventato sulla notizia per criticare il governo, è difficile negare che dietro la decisione di Standard and Poor’s di mettere sotto osservazione l’Italia abbassando l’outlook ci sia stato quanto meno un eccesso di prudenza. A depotenziare l’inaspettato affondo dell’agenzia di rating statunitense, piombato fra l’altro nel bel mezzo della campagna elettorale, ci hanno pensato ieri proprio i colleghi Fitch e Moody’s.
Solitamente, nel bene e nel male, le tre sorelle del rating si muovono praticamente all’unisono. Questione di ore, a volte di giorni, ma l’allineamento sui grandi obiettivi prima o poi arriva. Questa volta, invece, le distanze (malgrado la stessa S&P abbia fatto ieri una mezza marcia indietro dicendo che l’economia italiana non presenta particolari squilibri) si fanno sentire. «Non c’è indicazione che il governo non riesca a centrare gli obiettivi di stabilizzazione delle finanze pubbliche», ha spiegato il responsabile dei rating sovrani di Fitch, David Riley, aggiungendo che l’agenzia non ritene neppure vi sia «un impatto negativo» in termini di stabilità politica. In sostanza, Fitch non ha alcuna intenzione di cambiare né il rating né le prospettive sul merito di credito dell’Italia. Sulla stessa linea Moody’s, che ha fatto sapere senza dilungarsi troppo che i buoni voti sulla solidità economia e finanziaria del nostro Paese restano tutti confermati.
A difendere l’operato del ministro Giulio Tremonti è sceso in campo persino Olli Rhen, commissario europeo agli Affari economici non sempre tenero con l’Italia. Anche Rhen si è detto convinto che la crescita economica italiana sia relativamente solida e che il Paese sia sul sentiero prestabilito per rispettare gli obiettivi di deficit.
Tutto, insomma, sembra confermare quanto detto sabato a caldo dal responsabile dell’Economia in risposta alla sortita di S&P. E cioè che il governo rispetterà gli impegni e che non c’è alcun rischio di paralisi politica per l’Italia. Tremonti è tornato anche ieri sulla situazione dei conti pubblici, confermando che il «lavoro di questi anni non è stato solo un esercizio contabile», ma un impegno per tenere il bilancio dello Stato e, allo stesso tempo, tutelare «le famiglie, le imprese e la coesione sociale». In sintesi, ha spiegato il ministro intervenendo ad un convegno dell’Abi, «grazie anche alle banche che non hanno chiesto risorse pubbliche, abbiamo tenuto e ci sono tutte le basi per continuare a tenere».
Che il saldo della gestione Tremonti sia positivo, del resto, è stato costretto ad ammetterlo anche l’Istat. Malgrado un rapportone annuale infarcito di record negativi, dalla povertà, alla disoccupazione, al risparmio delle famiglie, al pil, nella parte in cui si parla di finanza pubblica l’Istituto nazionale di statistica non può far altro che riconoscere i meriti del governo, anche e soprattutto nel confronto europeo. Intanto, si legge, «a differenza di molte economia, l’Italia non ha avuto bisogno di interventi di salvataggio» e ha avuto «margini di manovra molto ristretti per attuare politiche anticicliche». Come dire che non si poteva fare molto di più. Quanto al debito pubblico, se è vero che in rapporto al pil il nostro è aumentato di 15 punti nel triennio 2008-2010, è anche vero che in Francia e in Germania è aumentato di 18, in Spagna di 24 e nel Regno Unito di 35. Non solo, l’incremento italiano, scrive ancora l’Istat, «è derivato quasi esclusivamente dal livello elevato dello stock di debito associato alla contrazione del pil, mentre il saldo primario strutturale (al netto degli effetti del ciclo) è rimasto positivo lungo tutto il triennio». Anche sul fronte del deficit l’istituto guidato da Enrico Giovannini sottolinea come il miglioramento sia dovuto principalmente «agli interventi di contenimento della spesa» nella misura di 1,5 punti percentuali di pil.
La notizia più importante, però, è quella arrivata ieri dal responsabile del debito pubblico di Via XX Settembre. Maria Cannata si è detta «tranquilla» sull’asta di fine settimana, sostenendo che la mossa di S&P non avrà contraccolpi. Se così non fosse, infatti, l’abbaglio rischierebbe di costarci caro.
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