mercoledì 30 settembre 2009

Unicredit e Intesa fanno da sole: niente Tremonti bond

Tante grazie al governo, ma Giulio Tremonti può anche tenersi i suoi bond. Com’era previsto, i due colossi del credito faranno a meno della stampella del Tesoro. La decisione ufficiale è arrivata nel tardo pomeriggio di ieri al termine dei due cda in cui Unicredit e Intesa San Paolo hanno disegnato le strade alternative che percorreranno per riportare la patrimonializzazione ai livelli richiesti dalla vigilanza bancaria. Con buona pace del ministro dell’Economia, che per i suoi bond dovrà accontentarsi di Banco popolare, Bpm, Mps e Credito valtellinese.
Nota, e limpida, la soluzione scelta dal gruppo guidato da Alessandro Profumo. Il consiglio di amministrazione ha approvato all’unanimità la proposta di un aumento di capitale fino a 4 miliardi. L’operazione avrà un impatto sul Core Tier 1 ratio (l’indice di patrimonializzazione), di circa 80 punti base che andranno ad irrobustire il 6,85% attuale. Se può essere di consolazione per il ministro dell’Economia, la rinuncia all’emissione di strumenti di capitale destinati alla sottoscrizione da parte del governo riguarda anche l’Austria. Unicredit ha infatti approvato anche la sottoscrizione di un futuro aumento di capitale per Bank of Austria da 2 miliardi. Per quanto riguarda l’Italia il consiglio definirà le modalità e i termini dell’aumento, in particolare il prezzo, prima della fine dell’anno. L’operazione dovrebbe concludersi entro il primo trimestre del 2010.
Resta ancora aperto, invece, lo scenario in cui si muoverà Intesa Sanpaolo. Il consiglio di gestione e quello di sorveglianza, hanno deciso, «alla luce di un andamento del gruppo migliore di quanto ci si potesse aspettare, di emettere fino a 1,5 miliardi di euro di Tier 1», ovvero obbligazioni che vanno a impattare sulla patrimonializzazione. Oltre al bond il gruppo accelererà e incrementerà «le azioni di capital management (dismissioni totali o parziali, partnership, quotazioni) previste dal piano d’impresa per garantire al gruppo le risorse patrimoniali necessarie a una crescita dell’attività creditizia anche superiore a quella oggi prevedibile». Intesa, in sostanza, «è in grado di raggiungere e andare oltre gli obiettivi di patrimonializzazione con risorse proprie». Senza il bisogno di operazioni straordinarie e, soprattutto, senza il bisogno di sospendere oltre la distribuzione di dividendi, che riprenderà nel 2010. Non è chiaro se si tratta di una pietra tombale dell’affare Exor-Fideuram, operazione cui sembrava affidato nelle scorse settimane il rafforzamento patrimoniale di Intesa. Il presidente del consiglio di gestione, Enrico Salza, si è limitato a dire al termine del cda: «Non c’è urgenza, si deve vendere bene, non in fretta».

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Il governo licenzia Telefonica

La Cina non c’entra. Ma gli spagnoli se ne devono andare comunque. Che il governo avesse da tempo acceso i riflettori sul dossier Telecom non è un segreto. La partita va avanti da mesi, tra riflessioni sulla presenza ingombrante di Telefonica nell’azionariato dell’ex monopolista e sulla necessità di avviare una volta per tutte il programma di investimenti sulla rete di nuova generazione per consentire finalmente all’Italia di viaggiare sulla banda larga. A un mese dal termine (il 28 ottobre) fissato per ridisegnare il patto di sindacato di Telco (la scatola che controlla il 24,5% di Telecom), Palazzo Chigi ha però deciso di stringere i tempi. A pigiare sull’acceleratore ci ha pensato il viceministro alle Comunicazioni, Paolo Romani, durante un’audizione davanti alla commissione Affari costituzionali della Camera. La quota (42,3%) che Telefonica detiene in Telco «è un problema rilevante che si deve risolvere», ha spiegato l’esponente del Pdl, al quale «penserà l’azienda, ma su cui il governo è molto attento». Romani non ha usato mezzi termini per invocare un rimescolamento degli equilibri societari in nome dell’italianità dell’azienda. «Il governo non può prendere posizione: si tratta di un’azienda privata, con tanto di regole», ha detto il viceministro incalzato dalle domande del deputato della Lega Raffaele Volpi, ma è chiaro che Palazzo Chigi spinge affinché «l’infrastruttura di rete rimanga italiana». In altre parole, o gli spagnoli tornano a casa o Telecom rinuncia al suo asset principale attraverso uno scorporo. Ipotesi quest’ultima che il management della società vede come fumo negli occhi.
Se le intenzioni sono chiare, le soluzioni lo sono molto meno. Assodato che Telefonica è «un problema da risolvere», anche per gli ostacoli all’attività di Telecom in Argentina (Paese dal quale è imminente l’uscita) e in Brasile per questioni di normativa Antitrust, si tratta di capire da chi potrebbero essere sostituiti. E, soprattutto, a che prezzo. Il dossier è da tempo sul tavolo dei quattro soci (Mediobanca, Generali, Intesa e i Benetton) che siedono insieme a Telefonica nel patto di sindacato. I riflettori sono puntati sulla Findim della famiglia Fossati, che, forte del suo 5% di Telecom fuori da Telco, qualche settimane fa aveva ribadito la necessità di dare al gruppo «un assetto strategico definitivo per il futuro». Recentemente alcune banche d’affari avrebbero anche studiato l’ipotesi di un’alleanza con le Poste. Mentre in passato il mercato aveva guardato a un matrimonio con Mediaset, sempre smentito.
L’unica cosa che sembra da escludere, vista l’insistenza del governo sull’italianità, è il coinvolgimento di altri partner stranieri. Il viaggio in Cina, ha spiegato Romani smentendo alcune indiscrezioni di stampa, «non c’entra nulla con Telecom, siamo andati in estremo oriente solo per parlare di infrastrutture e per vedere come lavorano».
Sullo sfondo ci sono poi anche le insofferenze di alcuni soci (in particolare Intesa) sull’attuale gestione dell’ad Franco Bernabé. Attriti tenuti a freno, per ora, dalla regia di Mediobanca sono in qualche modo espressione.
Ma il nodo principale resta il prezzo. Il titolo ieri ha chiuso a 1,22 euro (in calo dell’1,61%), ben lontano dai 2,2 euro ai quali è stata svalutata la partecipazione di Telco in telecom.
Ed è chiaro che per liquidare gli spagnoli servirà qualcosa di più dei 3 miliardi del valore attuale della quota. Ipotesi esplosiva per Telecom, che deve ancora combattere con i suoi 35 miliardi di debiti. La cautela del presidente Gabriele Galateri, quando sostiene che «le sinergie con Telefonica vanno sfruttate fino in fondo», non è casuale.

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Sborsiamo trenta milioni per film che non vediamo

È un bilancio semplice quello di Viale Mazzini. Sulle grandi cifre non ci sono trucchi né inganni. I ricavi della Rai arrivano per il 50% dalle nostre tasche (il canone di abbonamento), per il 38% dalla pubblicità e per il 12% da altre fonti. Tanto per quantificare, i soldi che sborsano gli italiani ogni anno per garantire il cosiddetto servizio pubblico ammontano a 1,6 miliardi.Per scoprire dove finisce il gruzzolo bisogna però inoltrarsi nelle pieghe dei documenti contabili. E qui la semplicità lascia spazio alla bizzarrìa e alla singolarità. Tra le notizie più sorprendenti c’è quella relativa ai film non visti. Tutti, almeno una volta, ci siamo indignati per un programma mal fatto, per un servizio poco pubblico, per un reality di cattivo gusto. Ma sfido chiunque a lamentarsi per una pellicola che non va in onda o per un documentario mai inserito nella programmazione. La chicca è contenuta nel capitolo di bilancio che si occupa del valore dei diritti d’autore e delle licenze. Qui si scopre che nel costo complessivo dei prodotti televisivi e cinematografici acquistati dalla Rai, c’è una quota destinata ai programmi fantasma. Film che non vedremo mai, fiction che non saranno mai inserite in palinsesto. In gergo si chiama «mancata trasmissibilità, replicabilità e sfruttamento commerciale di alcuni diritti». E non si tratta di bruscolini, ma di 30,6 milioni su un totale di 741.Sfogliando il bilancio si apprende poi che il servizio pubblico alimentato dal canone spende 360,7 milioni per fiction, miniserie e telenovelas e 155,1 per i film, ma solo 11,8 milioni per i documentari e 7,8 per la musica e il teatro. Oppure ci si accorge che 2,2 milioni di euro l’anno se ne vanno per i compensi del consiglio di amministrazione e 200mila euro per i sindaci che dovrebbero sorvegliare il bilancio (compresi i film mai visti). O ancora scopriamo che Carmen Lasorella è amministratore unico della San Marino Rtv Spa, controllata al 50% dalla Rai con un valore di carico di 2,9 milioni di euro. E noi sempliciotti che pensavamo che Lasorella fosse una giornalista e che San Marino fosse uno Stato indipendente.Ma il dato più preoccupante, e serio, è quello relativo ai costi del personale. Va premesso che l’elefantiaca Rai di Stato ha a busta paga oltre 13mila dipendenti. Cifra spropositata se si pensa che tutto il gruppo Mediaset in Italia ne ha poco più di 5mila. E il confronto diventa ancora più ingeneroso se scendiamo fino alla voce ”giornalisti”. A Viale Mazzini ne contiamo 2.006 rispetto ai 378 del Biscione.Il bello è che gran parte dei lavoratori della Rai è stata messa lì dai tribunali. Già, perché dal 2002 al 2007, secondo la Corte dei Conti, su 1.221 assunti a tempo indeterminato, 565 sono reintegri obbligatori decisi dal giudice. Il frutto, scrive la magistratura contabile, «di una non puntale osservaza delle disposizioni di legge o contrattuali che disciplinano le modalità di assunzione e di impiego del personale». Risultato: altri soldi del contribuente gettati dalla finestra. Il contenzioso da lavoro costa infatti all’azienda una decina di milioni l’anno a fronte dei circa 900 complessivi del costo del personale. In altre parole, oltre l’1% degli stipendi viene bruciato perché alla Rai non conoscono lo Statuto dei lavoratori.Il tutto (l’esercito dei dipendenti e gli sprechi) fa sì che alla fine dell’anno i conti non tornino per nulla. Quei 900 milioni di costo del personale si raffrontano infatti ai circa 3miliardi del costo della produzione. In percentuale si tratta di un 30% buono, livello decisamente troppo alto per un’azienda che usa i soldi dei cittadini e che sale al 38% se si considerano anche i costi per i viaggi e le trasferte del personale, gli accantonamenti per gli esodi agevolati, i costi del contenzioso e i fondi pensione dei dipendenti. Una situazione, si legge nella relazione della Corte dei Conti, che impone alla Rai di assumere «tutte le iniziative che si riterranno più idonee per mantenere sotto stretto controllo l’andamento del costo di tale fattore». E noi paghiamo.

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Un milione di italiani non paga il canone Rai

Gli italiani sono stufi. E non perché si lasciano convincere da una campagna di stampa. O perché hanno semplicemente deciso di trascorrere il loro tempo libero leggendo un bel libro o andando a fare shopping. Gli italiani sono stufi di pagare una tassa per la tv di Stato. Non si tratta di proclami o di inviti alla disobbedienza civile. Ma di numeri, messi nero su bianco nei bilanci della Rai. Il calcolo è semplice e chiaro. Tra nuovi abbonati e vecchi che fuggono (più o meno legalmente) il saldo finale è che dei circa 16 milioni e mezzo di iscritti, oltre un milione all’inizio dell’anno non ci pensa neppure a versare quei 107, 50 euro nelle casse di Viale Mazzini.Nel dettaglio, nel corso degli anni si è registrato un aumento dei cosiddetti morosi, quelli per intendersi che dovrebbero pagare ma non lo fanno. Nel 2006 erano 684mila, nel 2008 sono balzati a 738mila. Andando un po’ indietro nel tempo, il dato è ancora più evidente. La percentuale di evasione del canone di abbonamento, secondo le rilevazioni della Corte dei Conti, è passata dal 17,72% del totale nel 2002 al 24,99% del 2007. Una crescita avvenuta malgrado l’inasprimento dei controlli e delle richieste di pagamento. Il recupero bonario della morosità è infatti rimasto nelle mani della Rai, ma quella che in termini tecnici viene chiamata la riscossione coattiva è invece stata affidata alle strutture di Equitalia, che utilizzano gli stessi metodi riservati agli evasori fiscali.Accanto a chi si sottrae all’esborso illegalmente, c’è poi chi ha già fatto in anticipo e autonomamente quello che da un po’ di giorni andiamo scrivendo sulle pagine di Libero: la disdetta legale dell’abbonamento. A dichiarare l’inutilizzo o la cessione del televisore sono circa 300mila utenti all’anno, in leggera discesa dal 2006 ad oggi. Complessivamente, come dicevamo, si tratta di un milione di persone che non hanno alcuna intenzione di contribuire al finanziamento del carrozzone dell’emittenza pubblica.

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venerdì 18 settembre 2009

Uno scudo con le maglie più larghe

Traffico di organi, tratta delle bianche, narcotraffico. Con lo scudo fiscale anche il mostro di Rostov o quello di Milwaukee finirebbero per sfuggire alle maglie della giustizia. Sarebbe questo, secondo il Pd, l’effetto delle modifiche alla sanatoria contenute nell’emendamento presentato dal senatore del Pdl Salvo Fleres in commissione Bilancio. Con il nuovo testo, tuona il capo dei senatori Pd, Anna Finocchiaro, che promette “l’inferno” in Aula, «le prove in un procedimento penale per corruzione o per traffico di organi, nonostante siano state offerte spontaneamente per fare rientare i capitali, non si potranno utilizzare». La realtà, spiega la senatrice Cinzia Bonfrisco (Pdl), è «che lo scudo ha bisogno di miglioramenti e chiarimenti. Abbiamo offerto alla riflessione del governo le nostre proposte, che non prevedono stravolgimenti». Il Tesoro dovrebbe presentare le sue valutazioni entro martedì. Sul tavolo c’è sicuramente l’estensione delle garanzie per chi ha procedimenti penali in corso. Un elemento su cui il governo era tornato indietro nella prima formulazione proprio per evitare la prevedibile insurrezione della sinistra, ma che è chiaramente centrale per il buon esito della sanatoria. La questione aperta è se debbano essere inclusi tutti i procedimenti penali aperti alla data del 5 agosto 2009 o se occorra fare distinzioni in base allo stadio del processo escludendo, ad esempio, i procedimenti per reati tributari già arrivati al rinvio a giudizio. L’esigenza di calibrare meglio il raggio d’azione dello scudo viene confermata dai dottori commercialisti. «L’attuale formulazione», ha spiegato il presidente del Consiglio nazionale Claudio Siciliotti, «lascia spazio a profili di incertezza che necessitano chiarimenti. Per certezza intendiamo chiarezza tra cosa lo scudo protegge e cosa no». D’altra parte, c’è anche il rischio che Giulio Tremonti, alle prese con le solite esigenze di bilancio, sia tentato dal calcare un po’ troppo la mano per aumentare l’efficacia, e quindi l’incasso, dello scudo. «È evidente», continua Siciliotti, «che un ampliamento delle fattispecie protette dallo scudo ne può aumentare l’appeal ma è altrettanto evidente che questo obiettivo deve essere contemperato con valutazioni che non siano soltanto di cassa». Il problema principale, a questo punto, è arrivare ad una versione definitiva nel minore tempo possibile. Soprattutto se, come sembra, il governo vuole accorciare i tempi di chiusura dell’operazione al 15 dicembre.

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Le Fiamme Gialle cercano il tesoro di Rocco

Qualcuno, probabilmente, non esiterebbe a definirlo un campione. In senso stretto, però, Rocco Siffredi interrompe la lunga lista di sportivi pizzicati dal fisco. Dopo Max Biaggi, Mario Cipollini, Valentino Rossi e tanti altri, entra nel club anche lui, il re del porno. Siffredi, al secolo Rocco Tano, nato ad Ortona (Chieti) 45 anni fa, è finito nel mirino della Guardia di Finanza per una presunta evasione di centinaia di migliaia di euro attraverso l’apertura fittizia di società in paradisi fiscali, in particolare in Ungheria.Il solito vip che non paga le tasse, si dirà. L’ennesima vittima eccellente che serve al fisco per pubblicizzare adeguatamente l’attività di contrasto all’evasione. Può essere. Ma Rocco Siffredi non è una celebrità come le altre. Le sue gesta, e le sue misure, sono conosciute in tutto il mondo. Attore, regista, produttore cinematografico più volte premiato nel settore dell’hardcore agli Hot d’or di Cannes e agli Avn Awards americani, Siffredi è arrivato ad essere protagonista anche di 25 film hard ogni anno. Secondo una stima approssimativa, alimentata anche dalla leggenda, avrebbe partecipato a più di 1.300 film e avuto rapporti sessuali con più di 4.000 donne. Numeri che, insieme a quelli spropositati (degni del mito assoluto del porno John Holmes) dei suoi attributi, gli hanno procurato l’invidia e l’ammirazione di intere generazioni di adolescenti e no. E che negli ultimi anni, grazie anche alle comparsate in tv e alla stranota e ironica pubblicità delle patatine, gli hanno valso pure la simpatia dei benpensanti e di chi, mentendo, giura di non aver mai visto un sua performance. Inevitabile, visto il soggetto, l’immediata circolazione di battute e giochi di parole, facilmente immaginabili, sulla disavventura di Rocco. Su Facebook, poco dopo la notizia, era già sorto spontaneo un specie di comitato di sostegno. «Dovevi entrare te nel corpo della finanza e non far entrare la finanza nel tuo conto», è uno dei post più eleganti che si possono leggere. Al di là dell’aspetto goliardico, l’operazione della Gdf per Siffredi potrebbe rivelarsi una bella gatta da pelare. Il pornodivo rischierebbe, infatti, non solo una sanzione ma anche il carcere. Una linea di abbigliamento con il marchio R-Rocco e un logo malizioso (una y che evoca il sesso in erezione), un sito di e-commerce con occhiali, magliette, intimo, un sito vietato ai minori di 18 anni (official website of italian stallion) oltre ad altri non ufficiali e poi tutta la produzione hardcore dal 1984 ad oggi (nel 2004 aveva annunciato il ritiro dalle scene, ma l’ultimo film, Animal Trainer 27, è ancora inedito), sono le attività che costituiscono l’impero ufficiale del porno attore. Ma gli accertamenti delle Fiamme Gialle di Chieti, che dallo scorso anno stanno scandagliando la posizione fiscale di tutti coloro che avevano trasferito la residenza all’estero, avrebbero scoperto ben altro. «Incrociando i dati sugli acquisti di veicoli, i contratti di locazione, le utenze domestiche intestate, è emerso anche questo nominativo», riferisce il colonnello Gioacchino Angeloni, comandante provinciale della GdF di Chieti, che sta coordinando le indagini. Siffredi ha anche la disponibilità di una villa a Roma intestata ad una società di capitali di diritto britannico alla quale corrisponde un canone di affitto. «È dunque possibile», continua Angeloni, «che non abbia rescisso il rapporto con l’Italia, anzi riteniamo che è qui per oltre metà dell’anno solare». E dunque deve pagare tutte le tasse in Italia ed eventualmente scomputare con il credito di imposta quelle pagate all’estero. Nell’indagine sarebbe coinvolta anche la moglie, ex pornodiva, socia dell’attività di produzione in Ungheria, dove Siffredi dal ’95 ha trasferito il suo lavoro. L’imponibile evaso finora accertato è «intorno ai 200.000 euro ma l’indagine è ancora aperta con verifiche bancarie. Se si dovessero superare i 77.600 euro per anno e per imposta si rischia la condanna alla reclusione da uno a tre anni».

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Il Tesoro Usa prepara il divorzio da Citigroup

Altro che aiuti di Stato. Le banche, ha detto lunedì Barack Obama, «hanno già ripagato 70 miliardi di dollari al governo e una parte dei nostri investimenti ha dato al contribuente un rendimento del 17%». Ora al conto potrebbero aggiungersi altri 10 miliardi. Questa è infatti la cifra che guadagnerebbe il Tesoro Usa con la vendita del 34% di Citigroup. Si tratta della quota di capitale che Washington ha accumulato attraverso la conversione dei titoli privilegiati ricevuti in cambio delle robuste iniezioni di risorse pubbliche per salvare dal fallimento l’ex numero uno mondiale del settore creditizio. L’operazione è ancora allo studio e non sarà immediata. Secondo quanto riportano Bloomberg e il Wall Street Journal il collocamento delle azioni avverrebbe gradualmente nell’arco di 6-8 mesi, un anno al massimo. Ma il messaggio è chiaro. Come ha detto il presidente Usa nel discorso a 12 mesi dal fallimento di Lehman Brothers, è partita la fase due della crisi. Quella in cui il governo federale toglierà gradualmente le stampelle al sistema economico in generale e a quello bancario in particolare. Anche perché gran parte del mondo della finanza «invece di imparare la lezione, ha scelto di ignorarla» e ha sfruttato gli aiuti di Stato solo per rimpinguare il barile vuoto di bonus e maxipremi. Come dimostrato da quei 60 miliardi cumulativi di ricomopense speciali che i banchieri hanno di nuovo stanziato per il 2009. Ma i rubinetti pubblici ora si chiudono. Non solo. Obama vuole anche dimostrare agli americani che il salvataggio, alla fine, è stato quasi conveniente. Il Tesoro ha già recuperato in anticipo l’investimento in Goldman Sachs, con un profitto di 1,4 miliardi di dollari, in Morgan Stanley, con utili di 1,3 miliardi e in American Express, con un guadagno di 414. Ma il bottino più grosso è proprio quello che potrebbe arrivare da Citigroup. Nel novembre 2008, infatti, Washington ha accordato all’istituto guidato da Vikram Pandit un maxi-piano di aiuti da oltre 300 miliardi di dollari, di cui una buona fetta disponibili nel caso in cui la banca avesse registrato perdite «inusuali e forti» derivanti da prestiti e obbligazioni garantite da mutui. Il Tesoro ha ottenuto lo scorso luglio 7 miliardi di titoli Citigroup a 3,25 dollari l’uno, in seguito alla conversione di 25 miliardi di dollari di azioni privilegiate in titoli ordinari. La plusvalenza potenziale di un rientro del prestito, vendendo i titoli agli attuali valori di Borsa (4,30 dollari la quotazione di ieri a Wall Street), si aggira sui 9,7 miliardi. I dettagli dell’operazione sono ancora da definire. Una delle ipotesi prevede che Citigroup emetta fino a 5 miliardi di nuove azioni e contemporaneamente il Tesoro metta in vendita una quota dei suoi 7,7 miliardi di azioni (il 33,6% del flottante). Ma il governo potrebbe anche decidere di collocare sul mercato piccole tranche di titoli giornalmente o settimanalmente oppure vendere in blocco l’intera partecipazione.

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giovedì 17 settembre 2009

Il Lingotto vuole altri incentivi. «Senza lo Stato, auto a picco»

Secondo alcuni negli ultimi 30 anni lo Stato avrebbe già “regalato” alla Fiat, tra rottamazioni, incentivi, cassa integrazione e contributi vari, qualcosa come 100 miliardi di euro. Secondo altri aiutare la Fiat significa aiutare il Paese. Sta di fatto che Sergio Marchionne è tornato a battere cassa. E che il governo, per bocca di Claudio Scajola, ha detto che si può fare. L’allarme lanciato dall’ad del Lingotto non è una sorpresa. Il manager aveva già sostenuto la necessità di prorogare gli incentivi pubblici per l’auto a tutto il 2010 dopo i risultati del secondo trimestre, dove era emerso chiaramente che la crescita del gruppo in Europa si deve in gran parte all’effetto degli aiuti messi in campo da molti governi.

Ieri, dal salone dell’auto di Francoforte, Marchionne è ripartito all’attacco profetizzando che senza il prolungamento degli incentivi «sarà un disastro». Non per la Fiat, ma per il Paese. La decisione spetta al governo, ha aggiunto, «ma non rinnovarli avrebbe un impatto piuttosto disastroso sul livello occupazionale in Italia». Anche perché se è vero che «il 2010 sarà meglio del 2009», il mercato dell’auto «tornerà ai livelli precrisi solo nel 2012-2013». Una minaccia difficile da snobbare, soprattutto nel giorno in cui l’Ocse ha diffuso previsioni catastrofiche sull’aumento della disoccupazione, sostenendo che in molti Paesi della Ue, tra cui l’Italia, «il peggio deve ancora arrivare». Lo scenario è un balzo al 10,5% (rispetto all’attuale 9,4) alla fine del 2010.

Tanto è bastato al ministro dello Sviluppo per accogliere a braccia aperte l’appello di Marchionne. La prosecuzione degli incentivi, ha spiegato Scajola, «è una cosa auspicata e auspicabile», anche se «è prematuro parlarne». Per il ministro «gli aiuti al settore dell’auto hanno dato risultati molto soddisfacenti» e quando ci saranno i dati finali a novembre si valuterà «di concerto con gli altri Stati della Ue» se procedere con il rinnovo.

A parte chiedere altre risorse ai contribuenti, Marchionne non ha però voluto scoprire alcuna carta, né sul piano industriale di Chrysler, né sulle prospettive finanziarie dell’azienda, né, in particolare, sul destino degli stabilimenti italiani. Un capitolo, ha spiegato, che si potrà affrontare solo a novembre, dopo che sarà presentato il piano industriale della casa americana. E, probabilmente, dopo che saranno sciolte le riserve sugli incentivi. L’unica cifra che Marchionne ha snocciolato con decisione è quella dei 6 milioni di vetture prodotte. Un obiettivo che il manager continua a ritenere indispensabile per la sopravvivenza del gruppo e che potrà essere raggiunto senza ulteriori alleanze. Sui conti l’ad si è limitato ad assicurare che tutti gli indicatori sono in linea con le previsioni.

In effetti, i dati diffusi nei giorni scorsi da Acea hanno confermato il rimbalzo delle vendite, che ad agosto hanno segnato in Italia un +8,5% (+3% in Europa). Con una quota di mercato del Lingotto che nella Ue occidentale dall’inizio dell’anno è salita al 9%. Ma la situazione non è così tranquilla come sembra. Nel Vecchio Continente le vendite sono evidentemente trainate dagli incentivi. E in America gli esperti prevedono un settembre nero per Chrysler, con un tonfo delle vendite addirittura del 30% (rispetto al -19% previsto per il mercato). Le cose sembrano andare meglio sul piano finanziario, dove qualche giorno fa Fiat ha festeggiato l’emissione di un altro bond a cinque anni da 1,25 miliardi con richieste che avrebbero raggiunto gli 8 miliardi di euro. Ma le obbligazioni del Lingotto continuano ad avere rating junk (spazzatura) e gli alti interessi pagati sui prestiti (poco sotto l’8%) restano ancora uno strumento molto costoso per tenere sotto controllo il debito del gruppo.

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mercoledì 16 settembre 2009

Il taglio delle Province finisce in soffitta

Zitti zitti, con il Parlamento praticamente vuoto e le prime pagine dei giornali occupate dal match Berlusconi-Fini (e dalle vicende baresi di D’Alema), si sono ordinatamente seduti ai banchi e, come se niente fosse, hanno messo una bella pietra tombale sull’abolizione delle province. Niente veleni, niente polemiche. Per chiudere la pratica sono bastati venti minuti e qualche dichiarazione di rito. Esattamente dalle 12.25 alle 12.45, arco di tempo in cui giovedì si è tenuta la seduta della commissione Affari Costituzionali della Camera. Il blitz era nell’aria da prima dell’estate, quando si iniziò a prospettare l’ipotesi di affidare lo spinoso dossier delle proposte di legge costituzionali a un comitato ristretto che ne valutasse attentamente la praticabilità. Giovedì, la decisione è arrivata. Le modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione prendono una strada alternativa di cui si ignorano tempi e direzione.
Il binario mortoNessuno, ovviamente, ammetterà pubblicamente il delitto. Le quattro proposte restano in piedi e l’iter prosegue. Ma è chiaro che la costituzione di un comitato ristretto, come spiega l’udc Mario Tassone, «è un modo per mettere in ombra gli elementi di divergenza, ponendo su un binario morto un tema che non si vuole affrontare poiché manca una posizione univoca nella maggioranza e in parte dell’opposizione». A confezionare l’abito su misura per la riforma più annunciata e meno desiderata degli ultimi anni è stato uno schieramento bipartisan che va, tra gli altri, dai pdl Donato Bruno (presidente della Commissione nonché relatore del provvedimento) e Peppino Calderisi, agli udc Tassone e Pierluigi Mantini, fino ai pd Oriano Giovanelli e Sesa Amici. Tutti più o meno concordi nell’archiviare il caso. Anche dall’Udc, che pure insieme all’Idv di Antonio Di Pietro ha fatto della riforma una bandiera (non ha caso la proposta di legge depositata in Commissione porta la firma di Pier Ferdinando Casini), non sono arrivate che deboli obiezioni. Sia Tassone sia Mantini hanno invitato la maggioranza a chiarire qual è la direzione in cui andare prima di costituire il comitato ristretto, proprio perché quest’ultimo «agevola i lavori quando c’è la volontà di arrivare ad un risultato», mentre li affossa nel caso contrario. Ma poi Mantini ha voluto sottolineare che l’alternativa «non è semplicemente quella tra il mantenimento delle province nell’assetto attuale e la loro soppressione, potendosi ragionare anche su una riforma con legge ordinaria che, a Costituzione invariata, ridefinisca le funzioni delle province nel senso di una razionalizzazione del sistema e di una riduzione dei costi». Diversivo che piace molto anche al Pd. C’è l’esigenza, ha spiegato Amici, «di esaminare quanto prima i progetti di legge ordinaria in materia di riforma delle autonomie locali». Alla fine, al di là delle chiacchiere, la proposta del presidente Bruno del comitato ristretto (che sarà probabilmente composto dai capigruppo in commissione) è andata bene a tutti.La realtà è che chiusa la campagna elettorale i proclami gridati a gran voce (specialmente dal centro-destra) sono finiti immediatamente nel cassetto. Il dibattito si è riaperto alla fine dell’anno scorso in seguito alla martellante campagna di Libero che ha raccolto una quantità inimmaginabile di adesioni. Sono nate in quel periodo gran parte delle otto proposte di modifica costituzionale (quattro alla Camera, quattro al Senato) per eliminare le province. Ma l’entusiasmo (soprattutto quello di Casini e Di Pietro) è finito presto. La Lega ha puntato i piedi platealmente, mentre gli altri si sono pian piano defilati.
Il diktat di TremontiL’ultimo contrordine è quello arrivato da Giulio Tremonti una manciata di giorni fa durante il Meeting di Cl a Rimini. La riforma, ha detto il ministro dell’Economia, «richiede una modifica costituzionale ed è molto complicata». In più, ha aggiunto, non è vero che si risparmierebbe, «perché i costi sostenuti ora dalle province non sarebbero eliminati, ma dovrebbero essere caricati su altri soggetti». In sostanza, l’abolizione non s’ha da fare.Il messaggio è chiaro, ma l’argomentazione non convince. Se è vero, infatti, che le spese ora gestite dalle province per la manutenzione delle infrastrutture resterebbero è anche vero che degli oltre 14 miliardi (su un totale del settore pubblico di 750 miliardi) che gli organismi sottraggono al bilancio dello Stato, circa 2,5 miliardi se ne vanno solo per le spese di personale mentre un altro miliardo serve per le spese generali dell’amministrazione. Difficile sostenere che i tagli non arriverebbero. Complessivamente, secondo i calcoli dell’Eurispes, l’abolizione delle 104 province italiane comporterebbe oltre 10 miliardi di risparmi. Un po’ troppi per farli finire sotto il tappeto in un giovedì di fine estate.

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Novità al telefonino. Il cambio del gestore entro tre giorni

Tre giorni erano e tre giorni devono tornare ad essere. L’elastico della portabilità torna a stringersi. Dopo un braccio di ferro durato diversi mesi il Consiglio di Stato ha riportato le lancette alla disposizione iniziale dell’Authority per le tlc: gli operatori di telefonia mobile devono garantire il trasferimento del numero entro le 72 ore successive alla richiesta da parte del cliente. La decisione della giustizia amministrativa annulla la precedente sentenza con cui, nel giugno scorso, il Tar del Lazio aveva accolto il ricorso di Telecom e Vodafone contro la delibera dell’Agcom.

Secondo i due operatori “dominanti” il termine di tre giorni imposto dall’Authority costituirebbe una violazione alle norme che regolano il preavviso per il recesso dal contratto. Il riferimento è alla Legge Bersani, che prevede un termine di trenta giorni per tutti i contratti civili. In altre parole, per le due società di tlc i tre giorni dovrebbero aggiungersi ai trenta. Con buona pace dell’utente che vuole cambiare gestore. E dell’Europa, che continua a bacchettarci per i nostri tempi di trasferimento (una media di quindici giorni che ci colloca al penultimo posto dopo la Polonia). Tutt’altra, ovviamente, la versione (forse più in linea con lo spirito della Bersani) del Consiglio di Stato, che ritiene i trenta giorni un «termine massimo a garanzia del consumatore» e non un termine minimo a tutela dell’azienda.

La questione sul tavolo, chiaramente, va al di là del semplice disservizio. Non si tratta soltanto di evitare al consumatore inutili lungaggini burocratiche in un settore dove tutto è automatizzato. In gioco c’è la correttezza della competizione tra grandi e piccoli. Molto spesso, infatti, il periodo che intercorre tra la richiesta di portabilità del numero e la chiusura della pratica viene utilizzato dalla società per non perdere il cliente. In gergo tecnico si chiama attività di retention. In soldoni sono le telefonate martellanti con cui il vecchio operatore cerca di scoraggiare il passaggio al nuovo, anche attraverso annunci di offerte che poi non si concretizzano. La sostanza è che se la portabilità non si realizza in tempi rapidi, cade la ragione per cui è stata istituita. Ovvero favorire la concorrenza tra le varie offerte e allargare il mercato a nuovi competitor.

Non è un caso che oltre alle associazioni dei consumatori e all’Agcom, a firmare l’appello contro la sentenza del Tar c’erano anche operatori alternativi come Wind, Poste e 3.

Lo stesso Consiglio di Stato, nell’accogliere il ricorso, ha sottolineato che dalla decisione del Tribunale regionale «deriva un danno grave e irreparabile agli operatori minori, chiaramente pregiudicati dalla sospensione di un regime regolatorio che tende a disciplinare la portabilità del numero in modo efficace». Anche Vodafone, pur difendendo il «diritto dei clienti a fruire di offerte migliorative del proprio gestore anche durante il cambio di operatore», ha però voluto chiarire ieri che sull’accorciamento dei tempi di passaggio la società auspica che l’Authority possa garantire «certezza e minori ostacoli ai clienti» anche sulla telefonia fissa. Settore, guarda caso, dove il colosso dei cellulari torna ad essere un “minore”.

L’intervento dei giudici amministrativi non mette la parola fine alla vicenda. La disposizione si limita infatti ad annullare una sospensiva con cui il Tar aveva congelato la delibera dell’Authority. Ora bisognerà aspettare la sentenza di merito. Ma è chiaro che il parere del Consiglio di Stato, soprattutto nel passaggio in cui stabilisce che il rispetto del termine di tre giorni non comporta per Telecom conseguenze che abbiano «i requisiti della gravità ed irreparabilità del danno», peserà sulle determinazioni future.

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giovedì 10 settembre 2009

La febbre dell’oro sale ai massimi

Roba da far girare la testa a Zio Paperone. Mentre tutto cala, l’oro sale. Sempre più in alto, fino a superare la quota dei mille dollari l’oncia (che poi altro non sono che 33 grammi). In particolare i prezzi future sono saliti a Londra a 1.004 dollari, i prezzi a contanti viaggiano a 1.002. Ancora più alta la quotazione di New York, dove il metallo è arrivato a 1.009 dollari. Si tratta del massimo dal 18 marzo 2008. La nuova febbre dell’oro ha subito scatenato le fantasie di analisti ed osservatori. Da una parte ci sono le serie storiche, che ci insegnano che settembre è un mese particolare per il metallo giallo. Negli ultimi 20 anni ben 16 volte il prezzo dell’oro è risultato positivo in questi trenta giorni. Analizzando il mercato di Londra la materia prima ha guadagnato in media il 3,4% dalla fine di agosto mentre per cinque volte è balzata sopra il 5%. Poi c’è chi sottolinea l’incremento della domanda reale. In India, per esempio, in ottobre si tiene il Diwai, uno dei più importanti festival religiosi dell’area durante il quale la domanda di gioielli subisce un balzo in avanti. Peraltro anche in Cina, il secondo consumatore di oro al mondo, la richiesta del metallo tende ad alzarsi per vari mesi, dopo il primo ottobre, in previsione dei festeggiamenti del capodanno cinese.I sospetti principali puntano però su inflazione e dollaro. La domanda di lingotti subisce infatti solitamente un incremento quando vengono percepiti indizi di un surriscaldamento dell’economia. E di conseguenza, di un aumento dei prezzi. È qui che l’oro entra in gioco come investimento rifugio.Inevitabile poi l’effetto della debolezza del dollaro. Come tutte le materie prime, l’oro si scambia nella divisa americana e ogni fluttuazione della valuta innesca reazioni delle quotazioni. Reazioni tradizionalmente opposte. Quando il biglietto verde sale, l’oncia scende e viceversa. E visto che per ora gran parte degli analisti restano scettici sulla valuta Usa a causa del continuo aumento del deficit federale, inevitabile il balzo dell’oro. Senza contare che proprio ieri il dollaro ha toccato il minimo dell’anno nei confronti della moneta unica europea scendendo a 1,4507 per euro e ha anche perso terreno contro lo yen giapponese, la sterlina inglese e il franco svizzero. Ma le oscillazioni del metallo giallo hanno mille spiegazioni. Molti, ad esempio, lo utilizzano semplicemente come ansiolitico, per mettersi al riparo nelle fasi di elevata volatilità dei mercati finanziari. Ed è questo l’aspetto che sta spaventando di più in questi giorni. Il rialzo dell’oro avrebbe infatti lo stesso significato dei gabbiani che volano bassi quando si avvicina la tempesta. In altre parole, nulla di buono all’orizzonte.La verità è che tutti i segnali forniti dalla corsa del lingotto sono parzialmente veri. Del resto, l’investimento sul metallo prezioso è ormai un’opportunità a disposizione di tutti con l’enorme diffusione degli Etf. Strumenti finanziari negoziati in Borsa come delle azioni che replicano l’acquisto diretto di materie prime o di contratti derivati sulle materie prime. Il risultato è che dall’inizio dell’anno le quotazioni del metallo giallo sono già cresciute del 13,6%. Chi è tutt’altro che preoccupata è Bankitalia, che dopo avere neutralizzato la tassa di Tremonti (nel testo definitivo è rimasta un’aliquota al 6% sulle plusvalenze su un massimo però di 300 milioni di riserve e solo dopo il parere della stessa Via Nazionale e della Bce) si gode ora la crescita del valore delle sue riserve auree. A fine agosto ammontavano a 52,775 miliardi di euro, in crescita di 420 milioni di euro rispetto alla fine del mese di luglio. Resta da capire cosa succederà nei prossimi mesi. Le stime più spregiudicate parlano di soglie ancora da battere che possono arrivare oltre i 1.300 dollari. Previsioni più prudenti indicano i 1.175 dollari come livello che potrebbe essere raggiunto entro l’anno. In entrambi i casi, non sembra il momento di vendere.

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lunedì 7 settembre 2009

Squadra da "zero tituli"? La Roma ha già vinto

Certo, l’Inter è stellare, vince e stravince. Ma se ci pensate è come se nell’atletica l’Italia potesse comprarsi Usain Bolt. Una bella casacca tricolore e via come il vento, record su record, sempre sul podio. Poi ci sarebbe il problema dell’inno, ma intanto, come dice Bossi, non lo sa nessuno, si può anche mettere quello giamaicano.È strano il mondo dello sport. Su qualsiasi disciplina ci emozioniamo, tifiamo e sogniamo quando vediamo i nostri colori, i nostri atleti. Nel calcio no, bisogna solo vincere, vincere, vincere. A qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. E poco importa se nella magica Inter, milanesissima squadra, ci siano solo due italiani titolari, Materazzi e Balotelli, uno nato a Lecce l’altro a Palermo.Ancora con questa storia delle bandiere, direte voi. Non esistono più, come le mezze stagioni. Sono romanticherie da bambini, da parvenu del rettangolo verde. Eppure, quando il sardissimo Gianfranco Zola tornò al suo Cagliari tutta l’Italia si emozionò. Per non parlare delle manfrine che fecero i laziali quando tornò a Roma “l’irriducibile” Paolo di Canio. Una magia, si disse. Il tifoso che andava in Curva Nord da piccolo ora indossa la maglia della Lazio.Ora dalle parti di Trigoria è arrivato un signore che andava in Curva Sud da piccolo. Ma invece di festeggiarlo c’è già chi storce il naso. Certo, con Mourinho avremmo vinto di più. Con Claudio Ranieri il rischio di finire il campionato con “zero tituli” c’è. Ma forse ci si è dimenticati di cosa è Roma e di cosa è la Roma. Un tifo indescrivibile, una magia ad ogni partita, un amore senza limiti, una città dipinta di giallorosso e un mese di festeggiamenti dopo uno scudetto. Spettacoli che restano nel cuore di tutti quelli che hanno avuto il privilegio di calcare il prato dell’Olimpico e che tutti, anche chi sarebbe pronto a giurare il contrario, ci invidiano. Così come tutti ci invidiano l’emozione di vedere scendere in campo ogni domenica un ragazzo di Porta Metronia e un altro di Ostia, entrambi romani e romanisti. Non due riserve del vivaio, ma il Capitano e il suo vice, due campioni del mondo, due eccellenze del calcio che hanno indossato sempre e soltanto la maglia giallorossa. Ora a guidarli c’è un altro ragazzo di qualche anno più grande, anche lui romano e romanista. Una sorta di coincidenza astrale. Irripetibile e indescrivibile. Non durerà a lungo, obietterete, se non si vince qualcosa, se non si va in Europa, se la società non ripiana i debiti. Tutto vero. Nel calcio moderno servono i risultati e i soldi. Altrimenti si è fuori. Ma a quell’Inter senz’anima, sarò pazzo, continuo a preferire “zero tituli”.

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Il Pil riparte, l’occupazione no. Solo la sanità assume ancora

Sono i primi a scendere dal treno, gli ultimi a risalire. Così, oltre al danno di essere messi alla porta senza troppe cerimonie, ora gli tocca anche la beffa di sentirsi ripetere da ogni parte che la crisi è finita. Per loro, per i lavoratori, il peggio sembra appena iniziato. Secondo i sindacati ci aspetta un autunno in grado di produrre un milione di disoccupati solo in Italia. Stime un po’ catastrofiste che però non si discostano molto da quelle ufficiali. A luglio scorso il tasso di senza lavoro in Eurolandia è cresciuto dal 9,4 al 9,5%, raggiungendo il livello più elevato dal maggio 1999. Negli Usa la percentuale ha toccato la cifra record del 9,7%. In Italia, nel primo quadrimestre del 2009, siamo al 7,4%, ma Confindustria prevede l’8,6% alla fine dell’anno e il 9,3% nel 2010. I dati dimostrano che c’è una sfasatura tra economia, da cui emergono segnali di speranza, e mondo del lavoro, dove le prospettive sono cupe. Secondo il Chief economist dell’Fmi, Olivier Blanchard, non c’è nulla di anomalo. «Le previsioni di crescita», spiega, «sono basate su una combinazione di stimoli di bilancio e ricostituzione delle scorte da parte delle imprese, invece che su consumi privati forti e spese per investimenti in beni capitale. Prima o poi, gli stimoli di bilancio dovranno essere gradatamente ridotti, e anche la ricostituzione delle scorte terminerà». Quindi, «la crescita non sarà abbastanza forte da ridurre la disoccupazione».
La banca si salva
Ma chi saranno le vittime di questa bomba a scoppio ritardato? Coloro che hanno ancora nella mente le immagini dei funzionari della Lehman che uscivano dagli uffici a testa bassa con gli scatoloni in mano, risponderebbero senza esitazioni i lavoratori del settore finanziario. Del resto, è da lì che è partita la crisi globale. In realtà, a parte il colosso Usa e pochi altri piccoli istituti, le banche non hanno affatto chiuso bottega. Anzi, come dice Tremonti, la maggior parte dei soldi pubblici è servita proprio a puntellare il mondo del credito. Il risultato, secondo i dati del sistema informativo Excelsior di Unioncamere, è che a fronte di un calo complessivo dell’occupazione nel 2009 dell’1,9%, le banche, le assicurazioni e i servizi finanziari subiranno una contrazione solo dell’1,2%. Molto peggio vanno i trasporti (-2,5%), il turismo (-1,9%) e il commercio all’ingrosso (-1,9%). La verità è che il colpo più duro è quello inferto all’industria (-2,6%) e alle costruzioni (-2,7%), con picchi che riguardano il tessile e l’abbigliamento (-3,5%), i beni per la casa (-3,2%), i mobili, il metallurgico e le materie plastiche (-2,7%). Si tratta, in sostanza, delle attività del manifatturiero più legate al made in Italy e all’export, due settori fortemente colpiti dalla recessione internazionale. Sorprendente l’invulnerabilità della sanità privata, unico settore in crescita (+0,3%).
I lavori anti-crisi
Un altro fenomeno che balza agli occhi, questo più scontato, è che a fare le spese della crisi saranno principalmente gli operai e il personale non qualificato, con un calo del 2,4% (pari a 160mila unità). Un dato significativamente più elevato rispetto a quanto atteso per i livelli dirigenziali (-1,6%) e impiegatizi (-1,1%). Inutile dire che la contrazione più forte colpirà le piccolissime imprese, con meno di 10 dipendenti. Complessivamente le previsioni per il 2009 parlano di circa 250mila persone che resteranno senza posto.
Qualche spiraglio, però, c’è. Si tratta dei cosiddetti lavori anticrisi che riescono a sfuggire ai contraccolpi del ciclo economico. Nel campo delle figure professionali qualificate, secondo i dati di Unioncamere, in cima alla lista dei lavori più richiesti nei prossimi mesi ci sono ovviamente gli infermieri e i fisioterapisti, ma anche gli addetti al marketing. Per quanto riguarda le occupazioni senza specializzazione, secondo la Cgia di Mestre, i mestieri più gettonati dell’autunno saranno quelli di commesso, addetto alle pulizie, muratore e carpentiere.

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sabato 5 settembre 2009

Tremonti sblocca 18 miliardi per le aziende

Ci sarà ancora da aspettare qualche giorno, ma già la prossima settimana il lunghissimo braccio di ferro tra Pubblica amministrazione e imprese potrebbe finalmente vedere la fine. Il Tesoro avrebbe infatti quasi finito il lavoro di ricognizione per sbloccare una sostanziosa fetta dei debiti della Pa verso le aziende. Si tratta di circa 18 miliardi stanziati nell’ultimo assestamento di bilancio. Il termine previsto dal decreto anticrisi per definire le procedure scadeva ieri, ma fonti governative assicurano che la firma di Tremonti al provvedimento arriverà in tempi brevissimi. Per un curioso meccanismo contabile è possibile che vengano liquidati prima i debiti più recenti rispetto a quelli prescritti che devono essere di nuovo iscritti a bilancio prima di poter essere estinti. In ogni caso, si tratta di un bel po’ di risorse per le imprese. Ossigeno prezioso in vista dell’autunno caldo sul fronte dell’occupazione, che malgrado i segnali di ripresa dell’economia continua a calare. Ieri a fare i conti con gli effetti della crisi è toccato agli Stati Uniti. Il dato sui senza lavoro ad agosto è salito al 9,7%, contro il 9,5 previsto. È il livello più alto dal giugno 1983.
Non è un caso che sempre ieri il Fondo monetario internazionale abbia messo in guardia i governi da mosse troppo avventate, magari sull’onda dell’entusiasmo per i primi segnali di ripartenza. «Vista la fragilità delle prospettive di ripresa», ha detto il direttore generale dell’Fmi, Dominique Strauss-Khan, «sussiste il concreto pericolo che i Paesi portino a termine prematuramente le politiche fiscali e monetarie straordinarie adottate per contrastare la recessione». Fra i rischi menzionati da Strauss-Khan c’è proprio quello della disoccupazione, che continuerà ad aumentare fino al prossimo anno.
Anche di questo si parlerà oggi al G20 di Londra. I ministri finanziari e i banchieri centrali riuniti per la due giorni in Inghilterra hanno confermato che la caduta dell’attività economica è finita e che ora si ragiona sulle exit strategy, sui piani per ridurre gradualmente gli stimoli fiscali. Ma l’avvertimento del Fmi, che arriva dopo quelli dei giorni scorsi di Ocse e fed, è più che condiviso. Prima di fare scattare l’operazione, è l’opinione comune, occorre aspettare che la ripresa prenda solidamente piede in modo omogeneo.
A tenere banco al vertice londinese sarà però la questione bonus. Sul tema saranno costretti ad incrociare le loro strade anche i duellanti Mario Draghi e Giulio Tremonti. Se al Meeting di Rimini c’è stato il tempo e lo spazio per un confronto a distanza, a Londra i due dovranno non solo frequentare contemporaneamente le stesse stanze, ma addirittura collaborare. Già, perché per quante legnate il ministro possa somministrare a questo o quel convegno, la crociata di Tremonti e dei leader europei contro i bonus dei banchieri dovrà alla fine passare per il governatore di Bankitalia. Sarà infatti il Financial stability forum da lui presieduto, sulla base dell’accordo raggiunto ad aprile dai Paesi del G20, a scrivere le nuove regole della finanza, comprese le limitazioni agli stipendi e ai premi dei vertici delle banche.
Al di là degli appelli condivisi, una posizione comune è ancora lontana. La lettera firmata da Sarkozy, Merkel e Brown si limita infatti a chiedere di «esaminare i mezzi per limitare l’ammontare delle remunerazioni variabili nelle banche sia in proporzione alle remunerazioni totali sia in funzione dei profitti e/o del reddito». Ben più dura l’impostazione tremontiana contenuta nel documento firmato, oltre che dal ministro dell’Economia, da Francia, Svezia, Olanda, Lussemburgo, Spagna e Germania. Qui si dice chiaro e tondo che i bonus ai banchieri «sono abitudini non solo pericolose, ma scorrette, spregiudicate e inaccettabili» e rappresentano «una provocazione davanti alla disoccupazione in aumento». Nella lettera i sette ministri dell’Economia auspicano la possibilità di «mettere un tetto ai bonus, sottoporli a tassazione e imporre ulteriori obblighi alle banche». Molto più cauta la posizione di Londra, che ieri sera ha subito messo le mani avanti.
Il Cancelliere dello Scacchiere, Alistair Darling, ha detto che la Gran Bretagna è disposta a lavorare con gli altri Paesi per irrigidire le regole sulle retribuzioni dei banchieri, ma aggiunto che l’accordo deve essere globale. «I francesi» ha spiegato, «hanno proposto il tetto ai bonus. Personalmente non credo che sia una proposta realistica». E un freno arriverà oggi anche dagli Stati Uniti. Non a caso ieri il governatore di Bankitalia, nel corso di una serie di incontri bilaterali, ha passato molto tempo con il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, favorevole ad una linea più morbida sugli stipendi. La questione è all’ordine del giorno dei lavori di oggi, dopo gli incontri informali di ieri e la cena di benvenuto. L’obiettivo è quello di arrivare a fine mese con una posizione unitaria sui vari punti. E proprio in questa ottica è stata fissata per il 17 settembre a Bruxelles un’altra riunione, questa volta con capi di Stato e di governo dell’Ue.

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venerdì 4 settembre 2009

Il piano di Bruxelles per liberalizzare le reti del gas mette l'Eni all'angolo

Ottenere a colpi di procedure d’infrazione quello che non si è ottenuto per via legislativa. È questa l’operazione cui sta lavorando la Commissione Ue per ottenere una rete del gas indipendente nel cuore dell’Europa. Ed è questo lo scenario che in questi giorni preoccupa sia l’Eni sia l’azionista di pro tempore Giulio Tremonti. La provocazione del Financial Times ispirata dal fondo newyorkese Knight Vinke ha immediatamente riaperto il dibattito sull’unbundling (la separazione della rete) che negli ultimi mesi era finito sotto traccia. L’ipotesi di fare lo spezzatino del Cane a sei zampe è piaciuta molto alla Borsa, che pregusta eventuali scalate agli asset di Eni. Molto meno ai diretti interessati e al governo. Il “no” argomentato di Paolo Scaroni è contenuto in una lettera inviata all’indirizzo di Knight Vinke. L’ad di Eni nega i vantaggi sotto il profilo finanziario e spiega invece i problemi che si creerebbero sotto quello industriale e geopolitico. Idea bocciata anche dal sottosegretario allo Sviluppo, Stefano Saglia, secondo il quale se l’Italia «procedesse alla separazione creerebbe un’asimmetria con gli altri Paesi europei». Quanto agli ispiratori di Ft, Saglia conferma quanto scritto da Libero, e cioè che «un certo movimento nel mondo economico e istituzionale angloamericano non vede con simpatia alcune iniziative intraprese in questi ultimi mesi dall’Eni».
Il sottosegretario la butta lì, ma la questione è centrale. L’insofferenza di Obama per gli accordi sull’energia che l’Italia sta stringendo con la Russia di Putin rappresenta infatti una sponda formidabile per quello che sta tentando di realizzare la Commissione Ue: la liberalizzazione delle reti per via “giudiziaria”. Una strategia che permetterebbe all’Europa di affrancarsi parzialmente dal controllo di Mosca. L’operazione è una sorta di piano B dopo il fallimento (per colpa principalmente di Francia e Germania) del tentativo di imporre con una direttiva la separazione proprietaria delle reti in luogo della più morbida separazione funzionale. Nel mirino dell’Antitrust Ue ci sono i principali colossi europei dell’energia, tutti in vario modo accusati di sfruttare una posizione dominante grazie al controllo della produzione e della rete. I francesi di Gdf stanno trattando in questi mesi con Bruxelles per la cessione a terzi dei principali punti di entrata della rete e dei gasdotti verso la Germania Megal e verso il Belgio Zeebrugge. Con la tedesca Rwe si è già arrivati ad un accordo attraverso la creazione di una società separata per la cessione di una fetta consistente della rete. Operazione che darà vita ad un corridoio indipendente tra Germania e Belgio da un lato e Olanda dall’altro. Resta l’Italia. I riflettori sono puntati non tanto su Snam, quanto sui gasdotti dell’Eni Transitgas (verso la Svizzera), Tenp (tra Svizzera, Germania e Olanda) e soprattutto sul Tag, che porta il gas dalla Siberia attraverso l’Austria all’Italia. Bruxelles, in teoria, potrebbe anche imporre al Cane a sei zampe la cessione dei tubi. Ma il governo ha già fatto sapere che non accetterà una soluzione del genere. Di qui il lavoro che stanno svolgendo in questi giorni i tecnici dell’Eni e del Tesoro per trovare un’alternativa. Sul tavolo c’è la Cassa Depositi e Prestiti, che potrebbe salvare capra e cavoli acquistando i gasdotti. Ma la partita è tutta da giocare.

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Cdp è pronta per i tubi Eni in Europa

L’ultima volta che Alessandro Ortis ha provato ad invocare lo spacchettamento dell’Eni, Claudio Scajola per poco non se l’è mangiato. La separazione tra produzione e distribuzione è una questione antica, su cui il presidente dell’Authority dell’Energia insiste da tempo. Ma quando Ortis lo scorso luglio, nella sua relazione annuale, è tornato a sostenere la necessità di una maggiore apertura del mercato del gas attraverso la cessione di Snam rete gas, il ministro dello Sviluppo gli ha risposto a brutto muso: «Si occupi delle questioni di sua competenza».Ieri sulla vicenda è sceso in campo il Financial Times nella sua autorevole e molto letta Lex column. L’Eni, si legge, ha «una struttura anomala» che unisce la produzione e la distribuzione di gas e petrolio. «Ci sono pochi motivi per essere diversi dall’Europa», aggiunge il quotidiano londinese, «e il recente taglio del dividendo da parte di Eni dimostra che questo modello ha raggiunto i suoi limiti».Sul ragionamento di Ft sono arrivate subito le obiezioni di esperti e analisti. Secondo Ubs «difficilmente Eni otterrebbe un miglioramento dei multipli diventando oggetto di scalata», mentre per il direttore di Nomisma energia, Davide Tabarelli, bisogna tenere conto «di una regola secolare che funziona sempre, che è quella dell’integrazione verticale».Ma la sensazione è che dietro l’articolo di Ft ci sia molto più che un suggerimento finanziario o industriale. E non è un caso che lo spunto dell’analisi sia stato fornito da uno studio del fondo newyorkese Knight Vinke. La tesi espressa ha infatti un sapore tutto americano, soprattutto alla luce della recente firma ad Ankara dell’accordo italo-turco-russo per il gasdotto South Stream. Un progetto cui partecipa il colosso italiano e che rischia di azzoppare definitivamente l’altro grande corridoio energetico, il Nabucco, con cui gli Stati Uniti tentano di scardinare il predominio di Vladimir Putin sui rifornimenti per l’Europa.Nella partita l’Eni gioca un ruolo strategico. Oltre al legame sempre più stretto con la russa Gazprom, infatti, il Cane a sei zampe è anche proprietario all’89% del gasdotto Tag, che insieme al North Stream garantisce l’approvvigionamento di energia all’Europa aggirando territori “scomodi” come Polonia, Bielorussia e Ucraina. In particolare il Trans austria gasleitung porta circa 30 miliardi di metri cubi di gas l’anno dalla Siberia fino all’Austria e all’Italia. Ed è qui che si incardina la questione degli intrecci proprietari. Lo scorso marzo Bruxelles ha infatti formalizzato nei confronti dell’Eni l’accusa di posizione dominante proprio in riferimento al Tag. In ballo c’è la liberalizzazione del mercato e l’apertura alla concorrenza, ma il vero scontro è sul controllo dell’energia in Europa. Lo sa bene il Financial Times che ieri ha voluto preparare il terreno ad un confronto che scalderà l’autunno. E lo sanno bene anche a Via XX Settembre, dove gli esperti stanno lavorando da tempo alla “società delle reti”. La novità è che ora la partita è doppia. Da una parte il fronte italiano, con la questione Snam rete gas, dall’altra quello europeo, con il nodo Tag. Per entrambi, secondo quanto risulta a Libero, il Tesoro è pronto a giocare la carta Cassa depositi e prestiti (controllata al 70% dallo Stato e al 30% dalle Fondazioni bancarie) come è stato fatto per la rete elettrica Terna o, in alternativa, Fintecna. L’ad di Eni, Paolo Scaroni, punta ovviamente a non mollare nulla. Ma se in Italia il governo sembra disposto ad accontentarsi della separazione funzionale e non societaria di Snam lo stesso potrebbe non accadere con l’Antitrust Ue, malgrado l’offensiva che i legali del Cane a sei zampe stanno preparando. Di qui il piano B per evitare che i “tubi” finiscano in mano straniera. Il progetto è però ancora incagliato su due nodi principali. Il primo riguarda il pericolo di uno stop Ue ad un’operazione che potrebbe configurarsi come aiuto di Stato, il secondo è, ovviamente, legato al prezzo. Quello ipotizzato dagli emissari di Scaroni che stanno conducendo la trattativa non sarebbe ancora adeguato.

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mercoledì 2 settembre 2009

Spunta la tassa occulta sull’ascensore

Da oggi anche l’ascensore diventa europeo. Può sembrare una sciocchezza, ma non lo è in Italia, dove la guerra agli scalini ha da tempo assunto dimensioni ciclopiche. Nessuno probabilmente lo direbbe, vista la quantità di centri storici, palazzi antichi e sperduti paesini di montagna dove l’unica alternativa alle rampe è abitare al piano terra. Eppure, l’Italia detiene il primato mondiale degli ascensori, con oltre 870mila impianti che ogni giorno effettuano quasi cento milioni di corse. Il guaio è che abbiamo iniziato troppo presto. Così, il 60% degli ascensori risulta in servizio da più di vent’anni, mentre un buon 40% va su e giù da oltre trent’anni. Un’età di tutto rispetto per un elevatore. Nasce da qui, oltre che dall’esigenza di adeguarsi alle normative europee molto severe in materia, la decisione del governo di introdurre nuove regole per la sicurezza. Il problema è che gli ascensori sono tanti e i soldi necessari a metterli in regola ancora di più. Le ultime stime parlano di interventi necessari per almeno 400mila impianti. Considerando circa 15mila euro ad impianto, si arriva alla stratosferica cifra di 6 miliardi: in pratica una manovra Finanziaria.Inevitabile, vista l’entità della stangata, l’esplosione di una vera e propria guerra degli ascensori che ha bloccato il provvedimento per circa 5 anni. Da una parte Confedilizia, preoccupata di garantire la sicurezza, ma anche le tasche dei proprietari di casa e dei condomini. Dall’altra i costruttori di ascensori, che con l’avvento delle nuove norme vedranno schizzare alle stelle i fatturati, che già sfiorano quota 3 miliardi di euro.chi ci guadagnaIl conflitto, combattuto a colpi di carte bollate e ricorsi al Tar, si è concluso lo scorso 23 luglio, quando il ministro dello Sviluppo economico ha firmato il decreto attuativo della legge dell’ottobre 2005. Il provvedimento entra in vigore oggi, data a partire dalla quale, con diverse scadenze in relazione alla data di installazione dei singoli impianti, i proprietari di casa dovranno disporre una verifica straordinaria «finalizzata alla realizzazione di una analisi delle situazioni di rischio» su tutti gli ascensori messi in esercizio prima del 1999. In seguito, chiaramente, dovrà essere disposta la realizzazione «dei conseguenti interventi di adeguamento». Le società che si occupano di costruzione e manutenzione si stanno già sfregando le mani da tempo. Come conseguenza del decreto, si legge in un comunicato del 28 luglio rivolto agli investitori della società quotata Monti Ascensori, prevediamo «un rilevante aumento dell’attività delle imprese del settore con un corrispondente incremento dei volumi di fatturato». È ragionevole aspettarsi, continuava la nota, «un significativo incremento del fatturato nei prossimi 6-8 anni per effetto di questi lavori». Evviva, ma chi paga? A rimpinguare le casse delle aziende di manutenzione saranno evidentemente i condomini, che in piena crisi si vedranno piombare sul groppone una bella tassa aggiuntiva. Ora, nessuno mette in discussione la questione sicurezza. Come ha più volte dichiarato il ministro Claudio Scajola, «succede ormai troppo spesso che sul pianerottolo si apra la porta dell’ascensore e l’ascensore non c’è». Quanto al costo, ha poi aggiunto il titolare dello Sviluppo economico, «se lo si guarda con la dovuta attenzione non è enorme, soprattutto se si pensa che serve a mettere i cittadini in condizione di vivere sicuri. Quello che si investe in sicurezza è nell’interesse di tutti».meglio i gradiniEd ecco il punto: sono davvero necessarie le nuove norme per stare più tranquilli? A giudizio di Confedilizia la risposta non è così scontata. Intanto, sembra che la norma tecnica in questione (UNI EN 81-80) non sia vincolante per gli Stati membri. In ogni caso, spiegano gli esperti dell’associazione, «già ora, e quindi indipendentemente dal decreto che impone nuovi oneri , gli ascensori sono soggetti ad un controllo manutentivo ogni semestre nonché ad una verifica strutturale ogni due anni». Tutt’altra, ovviamente, la versione di Assoascensori, che invece sostiene l’inefficacia delle norme attuali (la direttiva 95/16/CE, attuata in Italia con il dpr 162/99), che lascerebbero fuori dai controlli gran parte degli impianti attualmente operativi.Al di là delle rispettive posizioni, il problema principale sarà ora quello di evitare il caos o, peggio ancora, l’ipotesi che i condomini sborsino soldi e si tengano i vecchi ascensori. Confedilizia ha già promesso battaglia, non solo sulla norma, ma anche sugli aspetti burocratici che rischiano di trasformarsi nell’ennesimo onere aggiuntivo. E a paventare complicazioni sono anche le società di manutenzione. Sono infatti ancora da stabilire le modalità di svolgimento delle verifiche, che prevedono fra l’altro l’utilizzo di personale altamente specializzato non facilmente reperibile. Insomma, se non abitate in un grattacielo, meglio che iniziate a riconciliarvi con il caro vecchio gradino.

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