martedì 28 gennaio 2020

Cinquestelle è morto ma resta al governo

Venerdì 13 ai Cinquestelle gli fa un baffo. Il vero incubo dei Pentastellati è lunedì 27. Quello dello scorso maggio, all’indomani dell’elezioni europee, si ritrovarono catapultati dal robusto e muscolare 32% preso alle politiche del 2018 ad un ben più modesto 17%. Percentuali specularmente inverse a quelle dell’alleato di governo leghista, passato dal 17 al 34%, che da allora si presentò al tavolo di Palazzo Chigi con il piglio di chi può e vuole dettare legge.

La mossa agostana di Matteo Salvini, con l’uscita dal governo, porta ai grillini una ventata di speranza. I nuovi alleati del Pd non avevano brillato alle Europee ed erano per di più scossi da scissioni e forti tensioni interne. Nessun rischio all’orizzonte. Un altro lunedì 27, però, ha di nuovo ribaltato i rapporti di forza. Ieri i Cinquestelle si sono svegliati con il Pd primo partito in Emilia-Romagna (34,6%) e Calabria (15,1%). E con le loro liste scivolate rispettivamente al 4,7 e al 3,7%. Lo scenario è praticamente identico. L’alleato prima tenuto a bada dai numeri ora, ringalluzzito dall’aver fermato per la prima volta da due anni a questa parte l’avanzata leghista, scalpita ed è pronto (Nicola Zingaretti lo ha già chiarito) a far pesare i suoi voti nelle decisioni che contano.
Rispetto al maggio 2018, però, le cose sono persino peggiorate. La progressiva perdita di consensi ha provocato non solo una consistente emorragia di parlamentari, transitati altrove, ma anche il prolificarsi di correnti, dissidi e spaccature. Un polverone culminato con il clamoroso, e poco coraggioso, passo indietro del leader Luigi Di Maio a pochi giorni dalla debaclé annunciata alle elezioni regionali.
Il risultato è che M5S si trova di fatto senza un capo, lacerato dal continuo parapiglia di un numero imprecisato di bande interne e con la prospettiva alle prossime elezioni di non raggiungere neanche l’ipotetica soglia del 5% che secondo la nuova legge elettorale proporzionale al vaglio del governo dovrebbe essere superata per poter conquistare qualche seggio in Parlamento.

Resta solo la casta
L’unica cosa rimasta al grande movimento anticasta nato circa 12 anni fa con il Vaffa day di Bologna è, paradossalmente, la casta: i 208 deputati e i 99 senatori (al netto dei parlamentari persi per la strada) conquistati alle elezioni del 2018. Una potenza di fuoco enorme e sproporzionata rispetto al peso specifico che i grillini hanno oggi nel Paese che rischia di diventare da oggi come un’atomica nelle mani di Kim Jong-un.
Una bomba che i grillini non esiteranno a sventolare sotto il naso degli alleati di governo ogni qualvolta venga messa a rischio quella che ormai è la sola ragion d’essere del Movimento: la sopravvivenza. «Evolversi o estinguersi», ha ammesso il viceministro dello Sviluppo, Stefano Buffagni, sperando che gli Stati generali di marzo possano offrire spiragli di speranza di cui ad oggi, però, non c’è alcuna traccia. Il Pd ha festeggiato ieri il grande successo in Emilia-Romagna considerando la vittoria un tonico per il governo. Non hanno probabilmente considerato fino in fondo le conseguenze di dover amministrare il Paese con un partito in via di estinzione, che non ha più altri obiettivi se non quello di restare il più possibile aggrappato alle attuali poltrone, nella consapevolezza che saranno probabilmente le ultime dove poter poggiare comodamente il proprio deretano.
Tirare a campare
Il reggente pentastellato Vito Crimi ha spiegato ieri di aver parlato con il premier Giuseppe Conte e ha annunciato che M5S «deve lavorare su progetti che riguardano i cittadini». Ma quali progetti potranno mai interessare ad un partito che sta per tirare le cuoia se non quello di tirare a campare?
«Il Parlamento è questo e dura cinque anni», ha confermato senza pudore Crimi. Ed è proprio questo il problema. Negli anni che rimangono, infatti, le Camere non hanno solo il compito di contare i giorni che restano alla fine della legislatura. Ci sono, da subito, partite determinanti per il futuro del Paese, dallo scioglimento dei mille nodi irrisolti sul fronte industriale (Ilva, Alitalia, Autostrade, 150 tavoli di crisi aperti) alle riforme di cui si discute da mesi sulla sicurezza, sull’immigrazione, sulla giustizia, sul fisco e sulle pensioni.
Tra qualche mese, poi, ci sarà la grande tornata di nomine nelle più grandi partecipate italiane, dall’Eni all’Enel, dalle Poste a Terna passando per Leonardo, Fs e altre decine di società minori. In tutto, se si considerano anche le partecipate delle partecipate, sono circa 400 poltrone da assegnare.
Senza contare, se la legislatura tirerà avanti fino al 2022, la nomina delle nomine: quella del prossimo Capo dello Stato, garante supremo delle istituzioni e dei cittadini. La Costituzione non si discute. E finché in Parlamento c’è una maggioranza il Colle ha il diritto e il dovere di non sciogliere le Camere. Ma lasciare lo Stato in ostaggio di un partito del 5%, forse, non è esattamente quello a cui pensavano i padri costituenti quando hanno vergato la Carta fondamentale della Repubblica.

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