sabato 18 gennaio 2020

L'Italia se ne frega della politica. Salgono i guadagni

Ci sono le piccole aziende del Nord-Est e della Lombardia che continuano ad esportare le eccellenze del made in Italy, gli operatori dell’agroalimentare che inondano il mondo di prodotti unici e inimitabili (se non nel nome), i colossi dell’aerospazio, dell’energia e del settore navale che piazzano senza sosta i loro gioielli supertecnologici e portano oltre confine le loro competenze, i campioni della componentistica e della meccanica, della farmaceutica, dell’abbigliamento che non smettono di crescere e di conquistare quote di mercato estero. Ci sono, in altre parole, gli imprenditori che se ne fregano della politica e delle politiche anti industriali, che malgrado la guerra dei dazi tra Usa e Cina, i timori legati alla Brexit le centinaia di crisi nostrane irrisolte, la burocrazia folle, il fisco eccessivo e il pregiudizio sociale, si ostinano a fare il loro mestiere. A creare ricchezza, per se stessi e per il Paese.
Certo, la produzione industriale non vola, l’occupazione cresce ma le ore lavorate diminuiscono, i prezzi ristagnano e il prodotto interno lordo resta ancorato su percentuali da prefisso telefonico.

L’italia è forte
Ma, come ha spiegato un paio di giorni fa Carlo Messina, il numero uno di Intesa Sanpaolo, «l’Italia è molto forte, con un settore imprenditoriale dedicato all’export che è il migliore d’Europa, una struttura finanziaria che è la migliore d’Europa e un settore risparmio delle famiglie che è una forza strutturale e assoluta». L’Italia, ha proseguito, «è un Paese che, a prescindere da chi ci governa, può rimanere stabile e forte».
La prova tangibile è il numero snocciolato ieri dall’Istat sulla bilancia commerciale: nei primi 11 mesi del 2019 il saldo è stato positivo per 47,9 miliardi, che salgono a 83,3 se si tolgono dal conteggio di entrate e uscite i prodotti energetici. Si tratta di valori che non si vedevano dal 1991, anno in cui sono partite le serie storiche.
Il surplus commerciale da record è un risultato da incorniciare in un contesto di previsioni negative, di allarmi delle istituzioni internazionali, di profezie catastrofiche e di iniziative governative che, da qualunque parte le si guardi, non si può davvero dire che abbiano aiutato le imprese.

Rose e fiori
Questo non significa, ovviamente, che la situazione italiana sia tutta rose e fiori. Anzi. Leggendo il numero in controluce si scopre facilmente che il grande avanzo della bilancia commerciale è il frutto di un export che ha sostanzialmente tenuto, segnando in 11 mesi un +2,1% rispetto al +3,6% registrato nell’intero 2018 e di un’importazione che invece ha preso a veleggiare verso il basso, riducendo il suo valore di quasi dieci punti nel giro degli ultimi tre anni.
E a novembre le cose non sono andate benissimo neppure per l’export, che è crollato del 4,2%, con un tonfo che non si vedeva da otto anni, e del 3,2 su base annuale. L’Istat spiega che il calo è stato influenzato dalle «movimentazioni di elevato impatto della cantieristica navale verso i paesi extra Ue registrate a ottobre 2019 e a novembre 2018». Ma anche al netto di questo impatto il dato risulta in flessione dell’1,1% sul mese e del 2,1% sull’anno.
Il quadro complessivo è di un’Italia dove la vocazione all’export non è stata messa in ginocchio dai numerosi fattori negativi, prova ne è che manteniamo l’ottava posizione nel mondo per quota di mercato sul totale delle merci esportate, ma dove la flessione degli acquisti fatti all’estero inizia a delineare una non incoraggiante sofferenza della domanda interna.
Insomma, la navigazione procede anche tra i marosi, in attesa che l’orizzonte torni piatto. Un po’ come accade ai conti pubblici, che tutti gli anni finiscono nel mirino dei contabili dell’Unione europea, ma che, al di là della cattiva gestione da parte dei governi di turno, senza la zavorra del debito pubblico sarebbero di gran lunga tra i migliori d’Europa. Siamo uno dei pochi Paesi, infatti, che dal 1991 ad oggi, se si esclude l’annataccia 2009, viaggia con il saldo primario su valori positivi. Il che significa che al netto degli interessi sul debito le entrate sono sempre state più alte delle uscite.

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