I numeri snocciolati ieri dall’Istat sono da far strabuzzare gli occhi. Non si tratta più di recuperare i livelli pre crisi. Dalle tabelle emergono percentuali che non si toccavano da decenni. A partire da quella sull’occupazione, che a novembre si è attestata al 59,4%, valore che non si era mai visto nelle serie storiche dell’Istituto di statistica, partite nel 1977. In termini assoluti si tratta di 23,5 milioni di occupati, una massa trainata principalmente dalle donne (che in un mese sono salite di 35mila unità rispetto all’incremento complessivo di 41mila lavoratori) e parzialmente dai giovani tra i 25 e i 34 anni e dagli over 50. Nell’arco dei dodici mesi il saldo positivo è di 285mila posti in più (+1,2%). Cifra che scaturisce da un aumento di 283mila contratti stabili e di 42mila assunzioni a tempo indeterminato (alla faccia del decreto dignità) a cui vanno sottratti 41mila autonomi in meno, l’unica categoria in flessione. In forte calo anche gli inattivi, scesi di 72mila unità a 13 milioni, il nostro minimo storico. Il che significa che molti “divanisti” hanno deciso di muovere il sedere e hanno iniziato a cercare concretamente un’occupazione.
Sul carro dell’Istat
Sui dati platealmente positivi si sono ovviamente avventati tutti, rivendicando la paternità dei risultati. Per i grillini è tutto merito del reddito di cittadinanza e delle politiche attive sul lavoro, per i leghisti è senza dubbio il frutto di Quota 100, per i renziani è chiaramente l’onda lunga del Jobs Act. Tesi a cui si sono accodati diversi esponenti del Pd, tanto per non restare fuori dalla festa.
La realtà è un po’ diversa. Intanto, come si diceva prima, la ripresa dell’occupazione è avvenuta per buona parte non grazie all’azione politica, ma malgrado essa. Si tratta, in altre parole, di un ciclo economico che prescinde e va al di là degli interventi legislativi. Per avere la dimostrazione basta fare qualche confronto con l’Europa, dove la tendenza si è verificata in maniera assai simile e il nostro Paese, malgrado lo sprint, non sembra aver scalato molte posizioni. Sull’occupazione ci troviamo ancora al penultimo posto, prima della Grecia. Sulla disoccupazione, che a novembre è rimasta stabile al 9,7%, ci piazziamo invece terzultimi, peggio di noi oltre alla Grecia (16,8%) fa la Spagna, con il 14,1%. Ma il tasso medio dei senza lavoro dell’eurozona è comunque al 7,5%, ben più basso del nostro.
Puntate precedenti
Certo, la rapidità con cui da noi sono aumentati i contratti nell’ultimo periodo è indiscutibile. Ma anche qui basta aver seguito le puntate precedenti per rendersi conto che i numeri da record sono sostanzialmente dovuti ad un adattamento del tessuto imprenditoriale agli ostacoli frapposti dalla politica più che ad un’azione di stimolo operata dalla stessa. Il segnale più evidente, sottolineato negli ultimi rapporti annuali e trimestrali dell’Istat (più ricchi di dettagli), è il significativo aumento dei lavoratori part time, che tra il 2008 e il 2018 sono passati da 3,3 a 4,3 milioni, con la quota di chi non ha scelto tale condizione (part time involontario) balzata dal 40 al 64%. Tali contratti (effetto collaterale del decreto dignità), sempre secondo l’Istituto di statistica, hanno rappresentato la principale forza propulsiva dell’incremento dei livelli occupazionali nel nostro Paese nell’ultimo anno.
A questo bisogna aggiungere il massiccio ricorso alla cassa integrazione, straordinaria e ordinaria, effettuato dalle aziende per fronteggiare le numerose vertenze che il governo, con lo zampino di Cgil e soci, continua a tamponare con gli ammortizzatori sociali invece di risolvere. L’incremento della Cig registrato a novembre dall’Inps è stato del 35,3% rispetto allo stesso mese dello scorso anno.
Come spiega il segretario nazionale della Cisl, Luigi Sbarra, «molti lavoratori sono ad orario ridotto, e quindi a retribuzione ridotta, a causa della cassa integrazione e soprattutto del part time involontario». Rispetto al 2008, avverte il sindacalista, «mancano circa 500 milioni di ore lavorate».