mercoledì 29 gennaio 2020

Conte incassa ma non paga

In Italia, secondo i recentissimi dati di Unioncamere, nel 2019 hanno chiuso i battenti 326.423 imprese. Alcune di queste non hanno retto alla concorrenza, altre sono state semplicemente mal gestite. Molte, però, sono perite sotto i colpi del fisco. In altre parole, non sono riuscite a pagare le tasse nei tempi e nei modi chiesti dall’Erario. La beffa è che tra queste ce ne sono alcune, tante, che per sborsare il dovuto aspettavano che un altro Stato, quello che invece di incassare deve versare soldi per i servizi e i prodotti acquistati dai fornitori, saldasse le proprie fatture.
E qui viene il bello. Anzi il brutto. Già, perché mentre la pubblica amministrazione che deve riscuotere i balzelli è severa e inflessibile, quella che deve scucire quattrini è lasca, pigra e indisciplinata. Se paga, malgrado norme e regole che stabiliscono con precisioni i termini (30 giorni ordinari, 60 in casi eccezionali), solitamente lo fa con un ritardo tale che per il piccolo imprenditore si rivela spesso fatale.

STORIA ANTICA
La storia è antica. Ricordiamo tutti le promesse di Mario Monti, che fu il primo (spinto da una direttiva Ue) a dire di volersi fare carico del problema attraverso una certificazione del crediti delle imprese, e quelle di Matteo Renzi, che sull’impegno di azzerare lo stock di debito pregresso della Pa fece persino una scommessa pubblica con Bruno Vespa. In anni più recenti c’è stato il caso di Sergio Bramini, a cui il fisco voleva addirittura pignorare la casa malgrado un credito dell’imprenditore con la pubblica amministrazione di ben 4 milioni di euro. La vicenda presa così a cuore dai Cinquestelle al punto che l’ex capo Luigi Di Maio decise durante il Conte I di chiamare lo stesso Bramini a Palazzo Chigi come consulente.
Ebbene, non è cambiato nulla. O meglio, è cambiato che dopo un lungo braccio di ferro legale l’Unione europea ha deciso che lo Stato italiano deve farla finita di violare impunemente la legge. La Commissione Ue, alla quale diversi operatori economici avevano rivolto varie denunce per i ritardi, ha aperto nel 2014 una procedura d'infrazione contro l’Italia, arrivata nel 2017 all’ultimo stadio, cioè il ricorso per inadempimento dinanzi alla Corte. L’Italia ha sostenuto, a propria difesa, che la direttiva 2011/7 impone di garantire solo termini di pagamento «conformi» e di prevedere un risarcimento e interessi di mora in caso di mancato rispetto. Ma la Corte ha respinto in pieno tale argomentazione, spiegando che, anche se la situazione dei ritardi è «in via di miglioramento in questi ultimi anni», «la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi del diritto dell’Unione».
Il ministro Roberto Gualtieri si è affrettato a spiegare, numeri alla mano, che i tempi medi ponderati occorsi per saldare le fatture nel 2018 sono stati di 54 giorni e che l’88,5% dei pagamenti è stato regolarmente effettuato.

FUORI TEMPO
In pratica, si è autodenunciato, visto che sia i tempi sia la percentuale non corrispondono ai termini di legge. La realtà, come spiegano gli imprenditori, è che la situazione è sì migliorata, ma tutt’altro che risolta. La Cgia ricorda che lo stock è sceso rispetto ai 90 miliardi del 2012, ma si attesta ancora a 53 miliardi, cifra ben più alta di una manovra finanziaria. Si tratta, spiegano da Confartigianato, di una percentuale sul Pil del 3%, record negativo del Vecchio Continente e valore doppio rispetto alla media Ue dell’1,6%. Quanto ai tempi, secondo l’Ance, l’associazione dei costruttori, i ritardi nel settore dell’edilizia superano ancora i 4 mesi e mezzo, per un totale di 6 miliardi di arretrati.
Invece di perdere tempo a festeggiare la vittoria in Emilia-Romagna con i nuovi amici del Pd per tentare di non perdere la poltrona o a «insultare» il leader della Lega, come accusa lo stesso Matteo Salvini, il premier Giuseppe Conte farebbe bene ad occuparsi in fretta della questione. Anche perché in caso contrario arriverà pure una multa. E saranno sempre i contribuenti a pagare.

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