«Si possono raccogliere molti soldi se si interviene sui vitalizi politici e sulle rendite che i sindacalisti si sono creati in questi anni». Non è la prima volta che Tito Boeri si scaglia contro le sacche di privilegio previdenziale. Questa volta, però, più che contro la casta il dito del presidente dell’Inps, (che ieri ha anche denunciato in una missiva alla commissione Lavoro le continue «offese» del Parlamento sui dati incompleti e distorti che fornirebbe l’istituto) è puntato contro il governo, accusato di inerzia e complicità. «Noi», ha incalzato l’economista della Bocconi durante un convegno alla Sapienza di Roma, «abbiamo fatto delle proposte che giacciono al ministero del Lavoro e auspichiamo vengano esaminate, perché potrebbero finanziare interventi di politica sociale».
Sugli assegni dei parlamentari la posizione di Boeri è nota. Secondo il presidente dell’Inps ricalcolando col metodo contributivo le prestazioni erogate da Camera, Senato e Consigli regionali si potrebbero risparmiare fino a 200 milioni l’anno, un intervento semplice e «non simbolico». Che è cosa ben diversa dalla proposta dei grillini, che interviene solo sulle pensioni future (già in parte equiparate alle altre dal 2012) ed è stata definita da Boeri «incongruente e frettolosa».
Ma se sulla previdenza di deputati e senatori le complicazioni di arrivare ad un accordo sono evidenti, molto più facile sarebbe invece intervenire sui sindacalisti. Non tanto sui 17.319 che in passato hanno beneficiato dei privilegi previsti dal decreto legislativo 564 del 1996 (cosiddetta legge Treu), che sono tutelati dalle numerose sentenze della Corte costituzionale sull’inviolabilità dei diritti acquisiti, quanto sui circa 1.400 che, secondo l’Inps, l’assegno ancora devono incassarlo.
Tecnicamente, il giochino con cui i sindacalisti si sono messi in tasca trattamenti assai più generosi dei comuni mortali si chiama «contribuzione aggiuntiva». È quella che scatta in presenza di una aspettativa (retribuita o non retribuita) o un distacco. Considerando che in questi casi lo stipendio percepito dal sindacalista è quello base, senza alcun trattamento accessorio, il legislatore ha pensato fosse giusto concedere la possibilità di versare all’Inps ulteriori contributi derivanti dalla differenza tra gli emolumenti presi per l’attività sindacale e quelli percepiti (anche solo in maniera figurativa) dall’azienda di appartenenza. Ed ecco il trucco: un po’ prima della pensione la paga del sindacalista o presunto tale (perché nella giostra entravano anche amici e parenti) viene gonfiata e grazie al calcolo retributivo (abolito nel 2012, ma ancora valido pro quota per le annualità precedenti) la prestazione previdenziale va alle stelle. I contributi aggiuntivi finiscono, infatti, nella quota A della pensione, che a differenza di quella B, dove vale la media degli stipendi degli ultimi anni, viene calcolata sull’ultima retribuzione. L’Inps ha stimato che in questo modo le pensioni sono lievitate in media del 27%, con picchi del 66%. Regali che lasciano ancora più l’amaro in bocca se si pensa che i sindacalisti più anziani, grazie alla «sanatoria» varata nel 1974 con la Legge Mosca (pure a favore dei dipendenti dei partiti), hanno ottenuto l’assegno anche senza aver versato i contributi.
Per salvare il salvabile Boeri ha messo a punto una semplice circolare Inps per stabilire che i contributi aggiuntivi finiscano in quota B invece che A, come del resto ha stabilito una sentenza della Corte dei Conti dello scorso ottobre, che ha respinto il ricorso di un maestro la cui retribuzione era schizzata in 14 mesi da 2.000 a 8.000 euro. Ma la circolare è da mesi sui tavoli del ministero del Welfare. E nessuno la firma.
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