Non è la golden rule tanto invocata, ma è comunque un risultato. E, stando all’entusiasmo sfrenato di Enrico Letta, neanche così scontato. Il premier si è avventato sulla notizia senza aspettare un secondo. «Ce l’abbiamo fatta! La Commissione Ue annuncia ora ok a più flessibilità per prossimi bilanci per paesi come Italia con conti in ordine», ha subito scritto su Twitter, battendo tutti sul tempo.
L’annuncio di Josè Manuel Barroso è arrivato ieri mattina durante il dibattito pubblico all’Europarlamento riunito a Strasburgo. «Nella valutazione dei bilanci nazionali per il 2014 e dei risultati di bilancio per il 2013, sempre nel pieno rispetto del Patto di stabilità», ha spiegato il presidente della Commissione Ue, «permetteremo caso per caso deviazioni temporanee dal percorso di deficit strutturale verso gli obiettivi di medio termine fissati nelle raccomandazioni specifiche per Paese».
Le parole hanno rapidamente scatenato l’euforia generale, con dichiarazioni di vittoria e di soddisfazione arrivate da ogni parte politica. In realtà, come hanno spiegato prudentemente sia il capogruppo del Pdl, Renato Brunetta, sia il ministro dello Sviluppo, Flavio Zanonato, la notizia è buona, ma «l’eccesso di ottimismo» andrebbe evitato.
A fissare i primi paletti è stato lo stesso Barroso, spiegando che la flessibilità dei vincoli «dovrà essere collegata alla spesa nazionale su progetti cofinanziati dall’Ue nell’ambito della politica di coesione, delle reti transeuropee Ten o di Connecting Europe, con un effetto sul bilancio positivo, diretto, verificabile e di lungo termine». Ma è stato poi il commissario agli affari monetari Olli Rehn, in una lettera inviata ai vari governi, ad illustrare nel dettaglio le condizioni. A partire dal fatto che il tetto al 3% e gli obiettivi di pareggio di bilancio non si toccano. E neanche il percorso di discesa del debito pubblico previsto dal fiscal compact (riduzione di un ventesimo l’anno a partire dal 2015). A differenza della golden rule, infatti, gli investimenti infrastrutturali non saranno scorporati dal bilancio, ma saranno contabilizzati esattamente come ora. L’unica concessione reale, come ha spiegato il capogruppo del Pdl al Parlamento europeo, Giovanni La Via, è che la Commissione accetterà che il percorso di risanamento «abbia una progressione a scatti, alternando momenti di decrescita a momenti di stasi, con un grafico a scaletta».
Difficile quantificare l’entità della flessibilità. Di sicuro sul piatto non ci sono quei 23,7 miliardi di investimenti contabilizzati per le grandi opere di interesse europeo da qui al 2015 di cui parlava nei giorni scorsi il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che potrebbero essere sbloccati solo da una vera golden rule che li escluda dal bilancio. L’Ance parla di una torta aggiuntiva di circa 7,5 miliardi l’anno da destinare alle infrastrutture.
Ma la verità è che l’annuncio di Bruxelles non concede spazi di manovra clamorosi. Di fatto, la Commissione ha confermato quanto già sapevamo, e cioè che il governo potrà utilizzare la quota di deficit sotto la soglia del 2,9%, aggiungendo, però, precisi vincoli sui capitoli di spesa, che dovranno rientrare nell’ambito dei cofinanziamenti dei fondi europei. Tradotto in cifre, per il 2013 (con il deficit/pil previsto al 2,9%) i giochi sono chiusi. Per il 2014, come ha spiegato il capoeconomista di Nomisma, Sergio De Nardis, «se si confermano le previsioni di un deficit/pil al 2,5% l’Italia avrà a disposizione uno 0,4% di Pil da poter spendere per investimenti produttivi. Al massimo 6 miliardi». Ma se le cose andranno peggio i margini si assottiglieranno ancora. E in ogni caso i soldi non potranno essere utilizzati per l’occupazione, non essendoci, come chiede la Ue, «un impatto diretto e verificabile sul bilancio».
Tutt’altra l’opinione di Letta, che ha continuato a parlare per tutto il giorno di «successo degli italiani» e «premio importante per i sacrifici fatti», promettendo nella legge di stabilità investimenti per le infrastrutture e taglio delle tasse sul lavoro.
Più prudente il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomani, che ha definito quello di Bruxelles «un primo segnale», ammettendo che la partita vera si giocherà solo in autunno «una volta superata la boa delle elezioni tedesche». Come dire: se la Merkel resta, c’è poco da festeggiare.
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