Le tasse aumentano, il gettito cala. La maledizione di Laffer continua ad abbattersi sul fisco italiano senza che nessuno al ministero dell’Economia se ne preoccupi più di tanto. L’ennesima certificazione del peso abnorme dei balzelli in Italia è arrivata ieri da Bankitalia, che ha messo nero su bianco la classifica dei Paesi più tartassati d’Europa nel 2012. Con il suo bel 44% di pressione fiscale (rispetto al 42,6% del 2011) l’Italia ha agevolmente scalato posizioni, piazzandosi con autorevolezza nel gruppo di testa. Nell’eurozona, dove la media è del 41,5%, siamo arrivati al quarto posto, scavalcando la Finlandia, su 17. Meglio di noi hanno fatto solo il Belgio, la cui pressione fiscale nel 2012 si è attestata al 47,1% (era al 45,9% nel 2011), la Francia con 46,9% (45,8% nel 2011) e l’Austria 44,2% (43,5% nel 2011).
Ma l’Italia se la cava bene anche nell’Europa a 27. Allargando l’orizzonte ai Paesi dell’Unione, si perdono solo due posizioni, che vengono occupati ovviamente dai due Stati in cui tra tradizionalmente si pagano molte tasse, ma il welfare è robusto ed efficiente: la Danimarca (49,3%) e la Svezia (44,6%). L’Italia la troviamo così al sesto posto, in rimonta rispetto al settimo del 2011.
Complessivamente il nostro Paese si trova 3,5 punti percentuali al di sopra della media europea, che nel 2012 si è attestata al 40,5%.
Nel frattempo, malgrado le chiacchiere sulla spending review, di tagli non se ne sono visti. Nel 2012, risulta sempre dai dati diffusi da Bankitalia, la spesa pubblica è passata al 50,7% del Pil dal 50% del 2011. Su questo fronte, però, siamo in buona compagnia. Nei Paesi europei la spesa ha infatti un’incidenza addirittura maggiore sul Pil in Danimarca (59,5%), Francia (56,6%), in Finlandia (55,6%), in Belgio e in Grecia (entrambi i Paesi sono al 54,7% del Pil), Svezia (51,8%), in Austria (51,2%). Sulla spesa italiana pesa, ovviamente, per una quota importante il debito pubblico. L'incidenza della spesa sul Pil al netto degli interessi è infatti nel 2012 al 45,2% (in aumento comunque rispetto al 45,0% del 2011). E infatti il peso del debito in Italia il più gravoso d'Europa, fatta eccezione per la Grecia.
L’impietoso confronto internazionale non è che una conferma di quanto aveva già spiegato lo scorso aprile il direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d’Italia, Daniele Franco, che nel corso dell’audizione sul Def di fronte alle commissioni speciali congiunte di Camera e Senato, aveva definito necessario «ridefinire la composizione del carico tributario in modo da ridurre le distorsioni nell’offerta dei fattori produttivi». Secondo Franco la «pressione fiscale in Italia è molto elevata sia nel confronto storico sia in quello internazionale», essendo balzata «al livello massimo degli ultimi 50 anni».
E per quest’anno le cose non dovrebbero andare meglio. Le previsioni per il 2013 parlano di un 44,4%, ma non è escluso che il risultato finale possa essere anche peggiore. L’Istat giovedì ha rilevato per il primo trimestre una pressione fiscale al 39,2%, risultato superiore di 0,6 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Detta così sembra una buona notizia. In realtà, come ha prudentemente spiegato l’Istat, di solito nei primi tre mesi dell’anno la pressione fiscale risulta sempre meno accentuata rispetto ai trimestri successivi. Andando poi ai livelli massimi negli ultimi mesi dell’anno. Basti pensare che alla fine del 2012 il peso dei balzelli era schizzato oltre il 50% del Pil.
L’incremento mostruoso delle imposte, come aveva ben spiegato l’economista americano ideatore della famosa curva, non corrisponde però ad un corrispettivo aumento delle entrate. Anzi. In alcuni settori, come quello delle imposte indirette, l’effetto combinato della recessione e della elevata pressione fiscale risulta devastante.
La conferma è arrivata dai dati diffusi ieri dall’Economia sui primi cinque mesi dell’anno. Malgrado la valanga di tasse introdotta nel 2012, il gettito complessivo delle entrate erariali da gennaio a maggio è diminuito dello 0,2% (-373 milioni). La lieve entità del decremento è dovuto principalmente all’Irpef, alle nuove imposte sui redditi da capitale (+21%) e sugli attivi dei fondi pensione.
Continuano invece a precipitare le tasse indirette (-3,5%), con un crollo verticale dell’Iva, che cala del 6,8% proseguendo un trend già in atto nei mesi precedenti (da gennaio ad aprile il calo era stato del 7,8%). In termini reali il buco dell’imposta sul valore aggiunto, che il governo pensa addirittura di aumentare, è cresciuto dai 2,3 miliardi dei primi quattro mesi ai 2,87 miliardi del periodo gennaio-maggio. Le previsioni per la fine dell’anno parlano di qualcosa come 8 miliardi di gettito bruciati. Una perdita per il bilancio dello Stato che andrebbe ben oltre il guadagno stimato, evidentemente solo sulla carta, dall’aumento dell’aliquota dal 21 al 22%, che vale circa un miliardo a trimestre.
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