martedì 23 febbraio 2021

L'Italia non sarà capace di spendere i fondi Ue

Non passa giorno senza che qualcuno non ribadisca che i soldi del Recovery fund bisognerà utilizzarli fino all’ultimo centesimo, che l’occasione è epocale e che sciuparla sarebbe un delitto.
Concetti chiari e ampiamente condivisibili. Si tratta solo di capire in che modo. Già, perché se a parole sono tutti d’accordo sulla necessità di cogliere la palla al balzo, meno idee ci sono sugli strumenti per evitare che ci sfugga irrimediabilmente di mano. C’è chi ha giustamente fatto notare che l’Italia solitamente non riesce a spendere in maniera decente neanche i fondi strutturali, ma è stato subito zittito dai nuovi avventisti del Next Generation Ue, secondo cui il piano di Bruxelles darà vita ad una vera e propria età dell’oro dove le cose non potranno non andare bene.

Per gli altri, forse. Per noi la situazione è un po’ più complicata. solo qualche giorno fa abbiamo assistito ad una preoccupante divergenza di vedute tra il presidente del Consiglio Mario Draghi e la Corte dei conti, con il primo impegnato ad invocare deregolamentazione, snellimenti burocratici e velocità estrema nei controlli e la seconda a lanciare allarmi sui rischi legati al dilagare della corruzione e delle infiltrazioni criminali sui lavori e gli appalti che il governo si appresta ad avviare. Una disomogeneità di prospettive che non lascia presagire nulla di buono.

Pianificazione oculata
A mettere il carico, ieri, ci ha pensato la Bei, nell’ambito del ciclo di audizioni che stanno portando avanti le commissioni Bilancio e Politiche Ue di Camera e Senato. Il suo vicepresidente Dario Scannapieco, che ha passato dieci anni al Tesoro e un’idea di come funzionino le cose in Italia ce l’ha, ha detto chiaramente che non siamo pronti. E non perché non abbiamo validi progetti o perché non c’è una sufficiente compattezza politica per portare avanti la pratica, due fattori che comunque non vanno sottovalutati, ma perché storicamente non siamo capaci di spendere in fretta i soldi pubblici.
«Gli Stati», ha spiegato Scannapieco, «dovranno impegnare i fondi entro la fine del 2023, e di fatto spenderli entro il 2026. Questi tempi sono ristretti, e per il corretto impiego c’è la necessità di una pianificazione oculata, proprio per evitare di non essere capaci di spendere questi fondi a disposizione. Questi tempi oggi non appaiono compatibili con quelli che sono i tradizionali meccanismi di spesa italiani».
Insomma, serve una «discontinuità» radicale con il passato e il nostro Paese potrebbe non essere all’altezza. Per non fare il gufo mentre tutti celebrano l’arrivo di un’era della prosperità e del benessere il vicepresidente Bei, dopo aver, ovviamente, sottolineato che si tratta di «un’opportunità che capita una sola volta nella vita», ha detto che il piano italiano va nella giusta direzione e rispetta le priorità chieste della Ue, ma si è permesso di dare un piccolo suggerimento per evitare il peggio: «I tempi sono tali che non ci consentono di partire da zero. Dobbiamo partire con quello che è già cantierabile e che ha la possibilità di essere realizzato in tempi rapidi».
In altre parole, occhio a mettere altra carne al fuoco, a fare il passo più lungo della gamba. Meglio mantenere un basso profilo e accontentarsi di realizzare opere di fatto già avviate su cui si possono immediatamente far partire i lavori. Certo, il risultato sarà meno scintillante, ma così forse si riuscirà a portare a casa qualcosa.

Governance carente
Del resto, come ha sottolineato ieri il Cnel, il Pnrr appare «ancora carente sulla definizione della governance delle procedure e del monitoraggio, sulla previsione degli impatti dell’investimento e sul raggiungimento degli importanti obiettivi trasversali attraverso le missioni indicate». Non solo. «Le 48 linee progettuali», ha detto il presidente Tiziano Treu, «sono completamente prive di un sia pur schematico cronoprogramma».
Uno scenario assai complicato che rischia addirittura di peggiorare. La soluzione offerta dal Cnel è infatti quella di coinvolgere nella governance del piano non solo tutte le parti sociali, ma anche gli enti locali e i centri di spesa della pubblica amministrazione. Un’idea stracondivisa dai soggetti interessati che ieri, da Confindustria alla Cgil fino alle Regioni, hanno tutti chiesto a gran voce di poter mettere il becco in quella che si preannuncia come la più grande mangiatoia mai vista nella storia del Paese. Se le pretese saranno soddisfatte, il rischio di creare un tavolo disomogeneo e ingestibile è altissimo.
Sarà anche per questo che le stime di crescita affidate al piano di ricrescita continua a viaggiare su percentuali abbastanza deludenti. Secondo quanto calcolato dall’Istat il Pil nel 2025 avrebbe uno scostamento positivo rispetto allo scenario base di appena 2,3 punti.

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