Quattro ministri. Tre conferme e un nuovo ingresso. È questo il bottino portato a casa dalla sinistra allargata (Pd più Leu) nel nuovo governo guidato da Mario Draghi. La prima cosa che balza agli occhi, considerato che l’area di appartenenza è quella da cui quotidianamente arrivarno rimbrotti e sermoni sulla parità di genere, è che di donne neanche l’ombra. E questo porta subito alla questione successiva: perché le riconferme di Roberto Speranza alla Sanità e di Dario Franceschini alla Cultura?
Difficile dire se le scelte siano state orientate da quell’esigenza di continuità auspicata dal Capo dello Stato o da precise richieste dei partiti. Verrebbe da escludere, così a intuito, che sia stato il lavoro svolto finora dai due a convincere Mario Draghi. Intendiamoci, fare il ministro della Sanità quando scoppia una pandemia non è una passeggiata. Resta il fatto che la debolezza della risposta sanitaria al morbo è stato forse il principale problema con cui cui il Paese si è dovuto confrontare nell’ultimo anno. E l’idea di premiare chi doveva fare e non ha fatto, come l’esponente di Leu, risulta un po’ bizzarra.
Stesso discorso per Franceschini. Il capo delegazione del Pd, partito di cui è stato anche segretario tra Veltroni e Bersani, è stato alla guida dei Beni culturali a lungo con i governi Renzi, Gentiloni e Conte bis. Impalpabile il suo apporto. Tranne per la trovata di affidare i nostri musei a dei bravissimi direttori che però non parlano neanche l’italiano e alla recentissima iniziativa, di cui nessuno sa più nulla, di creare una Netflix della cultura. L’unica strategia di Franceschini durante la pandemia è stata la stessa dell’intero governo: chiudere tutto. Quanto al turismo, settore finito in stato catatonico per colpa dei vari lockdown, la mossa di Draghi la dice lunga. Pur di non lasciarlo ancora nelle sue mani ha creato un nuovo ministero ad hoc.
La terza conferma è forse quella meno incomprensibile. Lorenzo Guerini, politico di lungo corso cresciuto alla scuola democristiana e poi transitato nel Pd, è uno che i problemi li affronta e li risolve, senza troppo clamore. Compito che aveva svolto egregiamente quando Matteo Renzi (che non ha seguito in Italia Viva) gli assegnò il compito di stemperare le tensioni nel partito nella fase più litigiosa della storia Dem. Nell’ultimo anno, pur non stando troppo sotto i riflettori, ha fornito l’ossatura della risposta delle istituzioni all’emergenza, mettendo a disposizione del Paese la macchina logistica della Difesa, con uno straordinario dispiegamento di mezzi e risorse umane, fino al coinvolgimento nella campagna vaccinale.
Il volto nuovo
E poi c’è il volto nuovo. Quello a cui Draghi si è guardato bene dall’affidare la delicatissima partita della Giustizia (sarà mica un giudizio sugli anni passati a capo del dicastero?), pur cedendo alla richiesta di Nicola Zingaretti di affidare al suo vice un ministero pesante. Andrea Orlando, numero due del Pd, ex Guardasigilli ed ex ministro dell’Ambiente, guiderà il Lavoro. Certo, dopo la grillina Nunzia Catalfo fare bella figura non è difficile. Ma con tutte le pressioni a cui nei prossimi mesi sarà sottoposto il settore, con lo sblocco dei licenziamenti in vista e milioni di lavoratori in Cig, siamo sicuri non si poteva trovare di meglio? Orlando l’unico lavoro che conosce bene è quello di far carriera nel partito, che frequenta da quando ha i pantaloni corti e che ha scalato senza soluzione di continuità, dagli incarichi nella federazione giovanile, a quelli territoriali, fino a quelli nazionali.
«Ora riprendiamo il cammino», ha detto Zingaretti. Proprio quello che non dovevamo fare. Epperò qualche buona notizia c’è. Gualtieri, De Micheli, Amendola, Provenzano e Boccia da oggi faranno altro.