mercoledì 10 febbraio 2021

Con le chiusure a caso persi 100 miliardi di Pil

Gli indicatori economici continuano a sfornare numeri da brivido. Ieri l’Istat ci ha informato che il 2020 si è chiuso con un crollo della produzione dell’11,4% e che il lavoro ha perso 670mila posti.
Ma per quanto negativi possano essere questi dati statistici, sarebbe un errore pensare che i guai dell’Italia siano tutti lì. Certo, l’industria è andata male, anche se nel 2009, sull’onda lunga della crisi dei mutui subprime, andò anche peggio, con una flessione del 17,4%. Certo, l’occupazione ha subito un duro colpo, seppure la pioggia di ammortizzatori sociali abbia finora evitato il peggio. Epperò non è per questo che la nostra economia è andata a gambe all’aria. Come dice Confcommercio, «è il terziario il vero problema».

E non si tratta di un problema solo per gli esercenti che sono alla canna del gas, bensì per l’intero Paese. Già, perché non tutti i settori produttivi contribuiscono alla formazione del pil allo stesso modo. L’industria, malgrado la sua importanza per la crescita italiana, ha un valore aggiunto di circa 315 miliardi, il 20% del pil, le costruzioni non vanno oltre i 70 (5%) e l’agricoltura si ferma a 30 (2%). Il principale motore dell’economia sono invece i servizi, che ogni anno contribuiscono al prodotto interno lordo con la bellezza di quasi 1.200 miliardi (74%).

Doppio pasticcio
Vista da questa prospettiva, è possibile comprendere meglio quanto delicata fosse la partita delle misure restrittive anti Covid e, allo stesso tempo, quella del rafforzamento del nostro sistema sanitario. Due sfide perse. La prima ha provocato chiusure a tappeto delle attività commerciali e della ristorazione, blocco del turismo, congelamento di qualsiasi forma di svago e di divertimento. La seconda (oltre a favorire i lockdown con il collasso dei raprti ospedalieri) ha ingenerato un clima di incertezza e di sfiducia che ha soffocato la domanda, depresso i consumi e spinto i cittadini ad infilare ogni euro risparmiato in un conto corrente (ieri Bankitalia ha certificato un aumento record dei depositi a dicembre dell’11,1% rispetto allo scorso anno).
Il combinato disposto dei due pasticci ha provocato una crisi devastante di tutto il terziario. Le vendite di beni e servizi, secondo i dati raccolti da Confcommercio, sono precipitate complessivamente del 14,7%, con picchi negativi della ricreazione (-74,7%), della ristorazione e degli alberghi (-41,2%), delle automobili (-19%) e dell’abbigliamento (-23%).
Ed ecco il risultato in termini di entrate. In base agli ultimi dati disponibili dell’Istat, quelli relativi ai primi tre trimestri del 2020, i servizi hanno perso il 13,7% del loro fatturato, mentre la manifattura è scesa dell’11,5%.
Tenendo conto del diverso impatto sulla crescita è facile immaginare quale sarà il risultato sull’andamento dell’economia. Il primo è già stato certificato dall’Istat qualche settimana fa, quando è stato diffuso il dato sul pil del 2020, in flessione dell’8,9%. Si tratta, in termini reali, di circa 140 miliardi di valore aggiunto andati in fumo. 

Soldi buttati
Applicando le quote che abbiamo visto prima e considerando la maggiore flessione dei ricavi, possiamo calcolare, con un verosimile grado di approssimazione, che circa 100 miliardi di perdita sono attribuibili proprio al terziario, il settore strapazzato dai mille Dpcm di Giuseppe Conte, ingabbiato dalle ingarbugliate prescrizioni del Comitato tecnico scientifico, soffocato dal panico dei cittadini scatenato da un sistema sanitario non in grado di reggere l’urto della pandemia.
Intendiamoci, il virus ha la sua parte di colpa e il governo ha tentato di tamponare i danni con i ristori, la cassa integrazione e qualche sconto sulle tasse. Ma quando scopriamo, come è avvenuto poco fa con la Lombardia e ieri con la Puglia, che si sono disposte chiusure di intere regioni sulla base di dati errati, il dubbio che molti di quei miliardi persi potevano essere salvati viene.

© Libero